Lavoro, sul decreto dignità c’è troppo catastrofismo

Considerando l’ipotesi più negativa, l’impatto riguarderebbe solo lo 0,8% dei lavoratori a termine. Una cifra bassa. Bisognerebbe occuparsi invece, cosa che il decreto non fa, della bassa qualità del lavoro offerto e degli oltre 6 milioni di inattivi e disoccupati

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Il Decreto Dignità è oggetto di un forte dibattito su quali possano essere i suoi effetti sul mercato del lavoro. Ad alimentare la discussione è stata l’ormai nota “Relazione tecnica” realizzata dall’Inps, che stima (attraverso un’analisi predittiva) che il passaggio alle nuove regole produrrebbe un una perdita di 8.000 posti di lavoro all’anno. Una stima formulata dall’Istituto relativamente “generosa”, perché se il calcolo tenesse in considerazione anche gli effetti prodotti dalla reintroduzione della “causale” è probabile che sarebbero peggiori, diciamo di almeno tre volte tanto.

E pur considerando la versione più negativa, l’impatto del Decreto Dignità sul mercato del lavoro sembra decisamente contenuto. Riguarderebbe infatti lo 0,8% dei lavoratori a termine, che sono oltre 3,5 milioni. Una percentuale molto bassa, ma soprattutto a incidere sull’andamento del mercato del lavoro potrebbero essere anche altri fattori di natura economica che nulla hanno a che vedere con la regolamentazione: eventuali crisi aziendali, effetto prodotto da calamità naturali, introduzione di dazi o mancati accordi internazionali.

Entrando nel dettaglio, i comportamenti delle imprese saranno prevalentemente quelli di sostituire o stabilizzare il lavoratore. I fattori decisivi per questa decisione sono due: il livello di competenze necessario a svolgere il lavoro richiesto; il tempo di sostituzione del lavoratore a termine.

Date queste condizioni, è certo che l’effetto negativo della riforma (ovvero la sostituzione del lavoratore) si “vedrà” in prevalenza nei confronti delle persone a bassa qualifica. In realtà, non si “vedrà” un bel nulla, dato che i numeri dei soggetti coinvolti è così basso che difficilmente emergeranno dall’indagine campionaria dell’Istat sulle forze lavoro. Così, proprio per effetto della “sostituzione”, il dato non si vedrà neppure nelle analisi aggregate delle fonti amministrative.

A ciò si aggiunge che l’effetto di “sostituzione” è sempre stato presente. È lecito pensare (dato l’esiguo numero di trasformazioni a tempo indeterminato registrate in questi anni) che anche con il “Decreto Poletti” (ovvero il precedente decreto sui contratti a termine realizzato dal governo Renzi), una volta raggiunti i 36 mesi il lavoratore veniva sostituito con un nuovo lavoratore a termine.

Pur considerando la versione più negativa, l’impatto del Decreto Dignità sul mercato del lavoro sembra decisamente contenuto. Riguarderebbe infatti lo 0,8% dei lavoratori a termine, che sono oltre 3,5 milioni. Una percentuale molto bassa

In riferimento proprio al Decreto Poletti (una delle riforme più flessibili e precarie che siano mai state presenti sul mercato del lavoro italiano), rimane un mistero individuare quale mansione o professione (ovviamente a eccezione del lavoro stagionale) richieda specificatamente un contratto a termine “acausale” di 36 mesi (frutto anche di diversi rinnovi) e per la quale non vada bene un contratto a tutele crescenti. Il sospetto è che vi sia solo la volontà del datore di lavoro di non stabilizzare i lavoratori, evitando di versare le cosiddette tutele in caso di licenziamento.

Rimane inspiegabile l’accanimento nei confronti del decreto, in particolar modo da parte del Partito democratico, soprattutto quando lo stesso governo Gentiloni aveva aperto alla possibilità di modificare il Decreto Poletti (riducendo le mensilità da 36 a 24). Il perché non l’abbia fatto rimane un mistero.

Tuttavia, se in gioco è la “dignità” delle persone, restano due questioni rilevanti che non sono affrontate nel Decreto Dignità e non sono neppure oggetto di dibattito. In primo luogo, la bassa qualità del lavoro offerto: la stragrande maggioranza delle nuove attivazioni riguarda contratti di breve durata (entro i 12 mesi) per professioni a bassa qualifica in prevalenza nel settore dei servizi (collaborazioni domestiche, addetti alla ristorazione; commessi; operai generici; addetti alla logistica; ecc…). In secondo luogo, i 6 milioni di inattivi/disoccupati: il tallone d’Achille del nostro mercato del lavoro sono gli inattivi che sarebbero disposti a lavorare. Parliamo di 2,8 milioni di persone che unite ai disoccupati raggiungono l’impressionante quota di oltre 6 milioni (la cosiddetta “disoccupazione potenziale”).

Nei confronti dei lavoratori a bassa qualifica o dell’esercito di disoccupati/inattivi un potenziamento delle politiche attive del lavoro (se mai ci sarà) o l’acquisizione di maggiori competenze potrebbero non essere sufficienti, se non accompagnate da un progetto che favorisca la mobilità occupazionale, non solo da Sud a Nord, ma soprattutto da periferia a centro.

*Le opinioni espresse non coinvolgono l’istituzione di appartenenza

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