Non leggete Citati (che ormai conosce solo l’aggettivo “bellissimo”), ma Cavalleri, il critico più feroce della piccola Italia

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. Citati promette abissi ma rimane sempre in superficie, un tuttologo a cui Wikipedia ha rubato il lavoro. Molto meglio Cavalleri, un lettore intransigente anarchico, che a 30 anni aveva il coraggio di litigare con Montale

Il bastone. Pietro Citati dovrebbe denunciare Wikipedia, perché da quando esiste Wikipedia Pietro Citati ha perso il lavoro, ha perso la fama di tuttologo. Già insediato, mefistofelicamente, nei ‘Meridiani’ Mondadori (eppure: non abbiamo un ‘Meridiano’ che raccolga l’opera, chessò, di René Char o di Anna Achmatova né di Iosif Brodskij o di Dino Campana…), tanto che non sai mai se Citati sia vivo, morto, un morto vivente, il genio del Nostro è il vagabondaggio nella vaghezza. Citati, per non stressare la propria intelligenza e non dar sgarbo alla pazienza altrui, infatti, nei suoi biliosi articoli non dice nulla. Ad esempio. Nell’ultimo testo dell’ultimo libro, che dà il titolo al volume, Il silenzio e l’abisso, che promette riflessioni abissali ma è solo un centone di articoli superficiali, perché di Citati non si butta via niente – purché non si citino gli editori dei libri di cui parla, altrimenti Mondadori fa pubblicità agli avversari – Citati recensisce Il silenzio di Erling Kagge (per la cronaca, stampato da Einaudi). Nell’articolo, Citati sfoggia pensieri d’irrilevante qualunquismo (tipo: “Nel mondo moderno è difficilissimo trovare il silenzio”), ci mette, come il ketchup sulla marmellata di frutta, “un mito gnostico”, che fa sempre cool, e quando scrive qualcosa di interessante, cioè che “smettiamo di concentrarci dopo otto secondi, meno di un pesce rosso”, non è farina del suo cervello, ma è il copia-incolla della quarta di copertina del libro (che dice così: “in media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi”): l’avrà davvero letto il libro, Citati, o il beato tomo è la mera scusa per uno dei suoi strampalati voli retorici, con rispetto parlando? Quando poi si tratta di avanzare una opinione critica, Citati liquida il libro con un “bellissimo”, che è come dire, chissenefrega. In effetti, il ‘metodo Citati’ è proprio questo: prendere un libro a caso – o consigliato da amici, forse – riassumere di cosa parla, citare qualsiasi cosa, purchessia, per far vedere quanto sono intelligente, e decorare il tutto con un “bellissimo”. L’arte della recensione, per Citati, in fondo, è guardarsi allo specchio e ripetersi quanto son bello in questo mondo di bruti. Il ‘metodo’ è replicato con micidiale costanza: L’esoterismo islamico di Alberto Ventura è “un bel libro” equivalente a La conquista del Paradiso di Paul M. Cobb, “un bel libro” pure quello; Elisabetta e il conte di Essex di Lytton Strachey, invece, è “bellissimo”, ma è “bellissimo” anche La vita del signor de Molière di Bulgakov ed è ovviamente “bellissimo” pure il Tristram Shandy di Sterne – in quel caso Citati eleva il singolo io a una apoteosi plurale: “per noi, è un bellissimo libro”, ma… noi chi?, vogliamo i nomi! – come sono “bellissime” le pagine di Tommaso da Celano, il biografo di san Francesco, in una sorta di disincantato nichilismo bibliografico per cui tutto è bello, il testo medioevale come il romanzo contemporaneo, senza soluzione di giudizio. Se Il viaggiatore incantato di Leskov “è il più bel racconto dell’Ottocento russo” – perché? su quali basi? in merito a quale ragionamento? per “consuetudine ciecamente abbracciata”, come diceva Leopardi, che malsopporterebbe Citati? Non lo sappiamo, dacché basta che Citati, il San Pietro che ha le chiavi dei paradisi letterari, dica “bellissimo” che anche un rospo diventa principesco – l’incantevole Nikolaj non se ne faccia vanto: “bellissimi libri” sono anche Sinfonia di Leningrado di Brian Moynahan e Trascrivere la vita intera di Dmitrij Sostakovic. Possibile che al posto di ‘bello’ e di ‘bellissimo’, aggettivi francamente scemi, Citati non sappia dire altro? Suggeriamo, per variare, ‘intrigante’, ‘interessante’, ‘suggestivo’, ‘stupefacente’, ‘appassionante’. Se nei riguardi di Italo Calvino, Citati si sente di fare uno sforzo in più – la raccolta di interviste Sono nato in America “è un libro bello, intelligente e piacevolissimo” – con Oliver Sacks torna alle belle abitudini, “l’ultimo saggio del libro è il più bello”. Alla decima volta che s’incontra il superlativo bellissimo, vien voglia di silenziare Citati e di gettare Il silenzio e l’abisso nell’abisso fuori casa. D’altronde, da Citati – pure autore di romanzi dalle buone intenzioni e di cangiante banalità: tra i più brutti, non c’è “bellissimo” che possa far risorgere il cadavere romanzesco, Alessandro e Vita breve di Katherine Mansfield – non attendetevi di conoscere altro oltre ciò che sapete già. Esempi sparuti. “In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam” (ma va, ma davvero?); “Thomas Browne, uno dei più singolari inglesi del Seicento, nacque a Londra nel 1605. Studiò a Oxford dedicandosi agli studi di medicina…” (al di là della sgradevole ripetizione, studiò, studi, Wikipedia, in merito, è più informata); “Laurence Sterne, che nacque il 24 novembre 1713 in Irlanda, fu pastore per quasi vent’anni a Sutton”; “Nel 1937 Vladimir Nabokov pubblicò Il dono, il capolavoro del suo periodo russo”. Vedete? Citati allinea informazioni enciclopediche reperibili ovunque, altrove, o replica il già noto: le pagine di questo volume, equivalente a molti altri di Citati (La luce della notte e Il Male Assoluto, ad esempio), dedicate a Le memorie di un pazzo di Tolstoj, per dire (pp.187-191), sono tratte pari-pari da un saggio di Lev Sestov, In sede di giudizio finale, raccolto in un libro davvero “bellissimo”, Sulla bilancia di Giobbe, che Citati non si degna di citare. Tuttologo in pensione, Citati esiste per rassicurare le vostre certezze, ripete sempre le solite cose: leggerlo è come andare a trovare il nonno.

Pietro Citati, Il silenzio e l’abisso, Mondadori 2018, pp.320, euro 22,00

La carota. In redazione qualcuno lo chiama il Kaiser, per un tot di anni sono stato alla larga dal suo studio, poi, quando mi introdussero al Kaiser, la lingua si dileguò in un nodo. Non sapevo cosa dire, cosa fare – dalle labbra decollarono farfugli e farfalle. Ricordo, alle spalle della scrivania, un tomo, in francese, raccoglieva le opere di Arthur Rimbaud, ricordo l’edizione Gallimard delle poesie di Saint-John Perse (“il più grande poeta del nostro secolo”, scrisse firmando un fenomenale ‘coccodrillo’ per Avvenire, il 24 settembre del 1975), ricordo il completo impeccabile, la cravatta, il volto di cristallo, i baffi vispi. Penso che mi liquidò con una delle sue battute fulminee, non ricordo altro oltre l’imbarazzo – più tardi capii che dietro l’intelligenza spietata, si nascondeva un uomo dalla bontà imperiale. D’altronde, cosa avrei potuto dire al critico letterario più feroce della piccola Italia, che a neanche trent’anni si pigliava la dignità di litigare con Eugenio Montale e diventa direttore di Studi Cattolici, che ha accompagnato al Premio Strega Ennio Flaiano (formidabile l’incipit di un ‘pezzo’ che lo riguarda, del 1974, “Dunque, viveva in mezzo a noi un classico e non ce ne siamo accorti”), che intratteneva rapporti epistolari con Dino Buzzati (dal Corriere della Sera quella lettera del 22 ottobre 1965 pare esemplare: “Ma senza vanità chi scriverebbe qualcosa, chi dipingerebbe qualcosa?”) e con Giorgio Caproni (le lettere sono pubblicate nel numero di febbraio-marzo 1990 di Studi Cattolici, ma è da leggere la poderosa intervista al poeta pubblicata nell’ottobre del 1983 sulla medesima testata); amico di Giovanni Raboni, aveva conosciuto Ezra Pound (“bianchissimo – bianchissime le mani – i capelli ventati come nelle fotografie… i suoi occhi, improvvisi, due laghi d’azzurro”), amava Nilla Pizzi (“memorabile e trattata malissimo dalla cosiddetta società dello spettacolo”) e aveva letteralmente disintegrato l’ansia romanzesca (del tutto fasulla) di Umberto Eco (la stroncatura del febbraio 1995 edita su Studi Cattolici, lunghissima, è un abbecedario giornalistico: L’isola del giorno prima, attacca il critico, “è un libro inutile, innervosente, kitsch, presuntuoso e pretestuoso”, poi passa parecchie colonne per giustificare, con dati e citazioni, l’assunto)? Insomma, Cesare Cavalleri, che nella sugosa conversazione con Jacopo Guerriero ripercorre i tratti salienti della sua vita, è il guru della critica letteraria, l’esatto opposto di Pietro Citati: non lucida i pomelli dicendo quanto son belli, ma scardina la porta, la osserva, la riassesta. Cattolico, lettore intransigente e anarchico (“Il fatto di essere cattolico è una cosa personale. È una condizione comunque insufficiente per la letteratura, anche se necessaria per la salvezza”), Cavalleri non si limita a scrivere del tempo che fu – come fa Citati – o a stroncare fantomatici sultani della cultura italica (micidiali le stilettate a Eugenio Scalfari e a Roberto Calasso), ma, tramite l’attività editoriale delle Edizioni Ares, promuove il nuovo e riscopre il malmenato dall’indifferenza, l’indifeso. Si deve a Cavalleri la pubblicazione de Il cavallo rosso di Eugenio Corti, tra i grandi romanzi italiani di sempre e la riscoperta di Alessandro Spina, scrittore dalla mostruosa eleganza; è grazie a Cavalleri se leggiamo l’opera poetica di Elio Fiore ed è dalle sua ‘scuderia’ – rigorosissima – che è nato uno dei poeti italiani più importanti di oggi, Alessandro Rivali. La raccolta dei suoi articoli, Letture 1967-1997 (Ares, 1998), è necessaria e spassosa, ma è vecchia di vent’anni: bisogna raccogliere gli ultimi ‘pezzi’ di Cavalleri, lo invocano lettori che non ne possono più della critica stucchevole praticata oggidì da tromboni come Citati. A proposito. Nel 1977 Cavalleri dedica un articolo a La primavera di Cosroe di Citati: una sublime e sottile stroncatura. M’importa l’aggettivo usato per recintare Alessandro, romanzo in cui Citati riscrive la storia – risaputa – di Alessandro Magno. “Discutibile”, scrive Cavalleri. Citati, ora, l’abbiamo discusso. Indiscutibilmente sopravvalutato. L’esatto contrario di Cavalleri.

Cesare Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria, una conversazione con Jacopo Guerrieri, ELS 2018, pp. 188, euro 16,00

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