Il bastone. Rileggo un appunto di qualche anno fa. “Incrocio malriuscito tra Cosmopolitan e Grazia Deledda (quella scondita, però, passata come pietosa pietanza liceale). Per questo funziona!”. I giudizi continuano a tormentare il giudice, gli anni volano, la mia pazienza imbianca e Elena Ferrante – a cui avevo appiccicato quella didascalia –, indubbiamente, è l’alta rappresentante della letteratura italiana nel mondo che conta, quello anglofono. La fama della Ferrante è decuplicata, nei dintorni di Piccadilly, da quando è diventata editorialista del Guardian: lo scintillio di sciocchezze che ha scritto (del tipo: “ho imparato che i sentimenti negativi sono inevitabili; se vogliamo essere onesti con noi stessi e con gli altri, dobbiamo confessarli”) m’ha costretto a ripigliare in mano il ciclo de “L’amica geniale”, per capire se lo str***o sono io o se è lei – o chi per lei – la sontuosa sopravvalutata. Direi la seconda, senza tema. La Ferrante, per così dire, è l’emblema della ‘banalità del bene’: è rassicurante, nella forma – scrive facile – come nel contenuto – un tornado di pelviche stupidaggini – rappresenta l’Italia buona a tutte le latitudini (come Roberto Saviano), che va bene per tutti i gusti, anzi, funziona meglio in traduzione, perché non c’è stoffa nello stile. La Ferrante, insomma, non crea problemi: non ha la furia di Vitaliano Brancati, per dire, né l’ansia d’ispezionare il delirio di Giuseppe Berto, s’accontenta di narrare una storia priva di eresia, fa la calzetta senza sentire il bisogno di fiocinare l’uomo con interrogativi laceranti – come fanno, in modo diverso, chessò, Philip Roth, Martin Amis, Michel Houellebecq. Per capirci. Piglio un brandello da Storia della bambina perduta, lei, ‘Lenù’, cioè Elena, più che trentenne, due figli, ha una vita matrimoniale disastrata ed è con l’amante, Nino, a Montpellier, convegno di boss accademici. “Avevamo quindi stanze separate, ma ogni sera io facevo la doccia, mi preparavo per la notte e poi, con un po’ di batticuore, lo raggiungevo in camera sua. Dormivano insieme, stretti l’uno all’altro, come se temessimo che una forza ostile ci separasse nel sonno. Al mattino ci facevamo portare la colazione a letto, godevamo di quel lusso che avevamo visto solo al cinema”. Eccola. Roba da Cosmopolitan, appunto, anzi, neanche, l’editoriale di Grazia è scritto meglio, quanto meno è più piccante. Il colpo di grazia al mio tentativo reiterato di salvare la Ferrante dal mio cerebrale cinismo – meglio lei, comunque, di Veronica Raimo eh… – l’hanno assestato due cose. Il dialogo tra ‘Lenù’ e la suocera, Adele, su un tema tonante come la separazione coniugale (“‘È stato veramente difficile vivere con tuo figlio’. ‘Non c’è uomo con cui non sia difficile’. ‘Con lui, credimi, è stato particolarmente difficile’. ‘Pensi che con Nino andrà meglio?’. ‘Sì’. ‘Mi sono informata, le chiacchiere che si fanno a Milano sul suo conto sono molto brutte’”: che battibecco sfiancante, ma, mi dico, studiare un po’ di più l’abbecedario Hemingway?): roba che un vile blabla su Uomini e donne, al confronto, pare il Simposio di Platone. La seconda cosa è che mi è tornato in mano, rigurgitato dal caso, Il porto di Toledo di Anna Maria Ortese. La Ortese è morta vent’anni fa, quando la Ferrante aveva già esordito alla letteratura con L’amore molesto. “Sono figlia di nessuno. Nel senso che la società, quando io nacqui, non c’era, o non c’era per tutti i figli dell’uomo. E nascendo senza società o bontà io stessa, in certo senso non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno”. Ecco. Questo è linguaggio, è tempra narrativa, è temperatura lirica. I lettori della Ferrante, in fondo, poco ferrati in letteratura, non sono diversi da quelle delle ‘Cinquanta sfumature di’, e trilogie analoghe. Di Baricco in guêpière, francamente, non sappiamo che fare.
Elena Ferrante, L’amica geniale. Edizione completa, E/O, 2017, pp.1728, euro 75,00
La carota. Di solito le scrittrici italiane predicano bene e razzolano male, sono tante galline nel solito pollaio che si beccano per vedere chi fa il gallo. In questa alcova delle banalità, si erge, Veronica Tomassini, l’anti-Ferrante: non le importa della solita pippa narrativa, non è la solita pappa che ti tocca ingollare in libreria, scrive come comanda l’istinto, a morsi, con denti di vetro. Esordio nel 2010 con Sangue di cane, Laurana, nel 2014 pubblica Christiane deve morire (Gaffi) e l’anno scorso la consacrazione, con L’altro addio (Marsilio). Sul talento della Tomassini giurano due segugi come Giulio Mozzi e Gianluca Barbera, perciò andate sul sicuro. Veronica abita in Sicilia e a un quartiere periferico di Siracusa, Mazzarrona, ha dedicato l’ultimo libro, che va scrivendo. Ne ho letto alcuni brani. C’è la lucidità di chi è santificato a colpi di rasoio, è davvero l’anti-Amica geniale, nel senso che la Ferrante, probabilmente, è l’amica di tutti, la Tomassini è amica di nessuno, non ha santi in paradiso, ma geniale lo è, senza dubbio. Eccone un pezzo: “Il pomeriggio era umido e freddo alle case. I treni attraversavano la galleria, lasciandoci in virtù un gemito denso di attese, qualcosa che attenesse al futuro, al dopo, alla vita che smaccatamente abbandonava la sua blanda germinazione in quel luogo di castigo. Alle case era sempre un sonno minaccioso a ingannare lo sguardo. Le luci non erano mai abbastanza prestanti per destarci e se riuscivano diventavano buio, notte, pece. La galleria alla fine dei binari segnava il confine verso un mondo nuovo, generoso… Non c’era l’indulgenza del giusto che riflettesse e osservasse la rovina degli altri, il palpito del perdono, il macero in cui affonda i suoi passi incerti”. Soprattutto, la Tomassini – che firma per Il Fatto Quotidiano – ha un passo giornalistico efficace, fiero, spietato. Dovrebbe scrivere lei sul Guardian, altro che la Ferrante, solo che poi sì che Albione tremerebbe di rabbia. Veronica non ha paura di niente e scrive di tutto: dalla ‘rivolta degli arancini’ contro Salvini (“Va bene, vi prendo in parola: un arancino avrebbe fermato Salvini. Il senso del ridicolo mi copre come un vestito quasi quanto l’irritazione davanti a una nuova spregiudicata forma di propaganda e imbonimento delle masse”) alle puntate civiche dei romanzieri d’attualità, di oggi, come Silvia Avallone e Sandro Veronesi (“Quale sarà l’argomento trattato dalla pensatrice Avallone? Quale dibattito scatenerà? O Veronesi? Non doveva salpare a bordo di una nave con il collega Saviano? Le loro rivoluzioni si zittiscono presto, dissidi di mestieranti della parola. L’impegno civile certo e letterario. Mi viene l’orticaria. Ogni tanto leggo la lettera di qualcuno che in quanto scrittore si prodiga sodale con il collega Saviano (squillo di tromba) per la medesima battaglia, chiamatela invettiva. Sapeste quanta credibilità riescono a ispirarmi costoro. Indignazione inane a tonnellate. Partigianerie comode, giocate sulle spalle degli schiavi, dei poveri. Saviano l’eroe dovrebbe smetterla di pontificare, non sposta gli oceani, non più, non per me. Lo ha mai fatto?”). Ecco, yes, vorrei la Tomassini a rappresentare l’Italia negli altri mondi, di questi tempi: è una che ha i coglioni per mangiarsi col riso in bianco le palle di Houellebecq.
Veronica Tomassini, L’altro addio, Marsilio, 2017, pp.208, euro 17,00