«Quando avevo circa venticinque anni ho vissuto un periodo molto difficile, ero molto depresso e lo sono stato per circa tre anni e, quando ne sono uscito, guardandomi indietro mi sembrava di aver vissuto 400 anni». A parlare, con un bell’accento del nord dell’Inghilterra, è Matt Haig, 43 anni, scrittore, che con il suo ultimo romanzo, pubblicato da Edizioni e/o, domina la classifica dei best seller inglesi da più di un anno.
Si intitola Come fermare il tempo, e ha al centro un personaggio molto particolare, un tizio che dimostra più o meno l’età dell’autore, diciamo 40 anni, ma che in realtà, di anni, ne ha molti di più. Un uomo che non invecchia, che è riuscito a fermare il tempo: da Oscar Wilde a Adolfo Bioy Casares la fila di chi ha provato a vincere la morte, quanto meno tra le pagine di un libro, è molto lunga. Eppure Haig, che proprio grazie alla letteratura è riuscito a uscire da una fortissima depressione, non dà mai l’idea di aver fatto il compitino. Il merito? È tutto vero.
«Il tempo è molto relativo, e quando affronti un dolore, un’inquietudine così potente», mi spiega seduto su uno dei tavolini del Laso di Mantova «i giorni ti sembrano durare all’infinito. Quindi, sebbene il libro sia ovviamente e totalmente frutto della mia fantasia, i legami con la mia vita sono talmente forti da permettermi di dire che sì, in fondo c’è molto di autobiografico, e, anche se non si tratta di certo di un libro sulla depressione e sull’ansia, molto del materiale che ci sta dentro ha a che fare con quella mia esperienza».
A proposito del tempo, che in fondo è il cuore pulsante del tuo romanzo, secondo te che valore ha in questa epoca di velocità totale, di connessione globale e di sovrabbondanza di stimoli?
È una bella domanda, e credo che sia uno dei punti più urgenti da affrontare della nostra epoca: dove p finito il nostro tempo? Pensaci, tutti noi ci lamentiamo di continuo che non abbiamo tempo. Ma è un paradosso, perché per esempio non abbiamo mai vissuto più a lungo, in media, di questa epoca e mai abbiamo lavorato così poco, se ci pensi. Di un paradosso simile stavo giusto parlando l’altro ieri con un mio amico: se fino a qualche anno fa venire a contatto qualche migliaio di persone era una cosa che ti capitava in una vita intera, ora la stessa cosa ti può succedere in un giorno solo. Eppure ci sentiamo sempre più soli… Tornando al tempo, io credo che ne sentiamo la mancanza proprio a causa della sovrabbondanza di stimoli di cui siamo siamo sommersi, letteralmente.
In un contesto del genere che cos’è il tempo che chiamiamo “libero”? È realmente libero?
No, se parli del tempo libero inteso come tempo per gli hobby, per esempio, direi che lo stiamo sprecando, lo usiamo con le stesse modalità del tempo lavorativo, riempiendolo di attività utili. In questo senso credo che le storie, le narrazioni romanzesche, ci siano estremamente utili per affrontare questo problema e non sono mai state più importanti di adesso.
Che cosa significa?
Che leggere un libro è realmente una pausa per il nostro organismo: una pausa dagli schermi, dalle notifiche, dalle interazioni, prima di tutto, ma soprattutto una pausa in cui ci ritagliamo uno spazio di concentrazione, sia che si tratti di fiction che di non fiction. Se ripenso alla mia vita posso tranquillamente dire che i libri sono stati un’ancora di salvataggio nei momenti più difficili della mia depressione. Sai, non sono il tipo che riesce a sdraiarsi sul pavimento e mettersi a meditare, ci ho provato, ma non fa per me. Ecco, per chi come me non ci riesce, i libri possono essere una forma di meditazione.
Quindi la letteratura ha avuto un ruolo nel tuo superare la depressione?
Assolutamente sì! Quando ero giovane facevo fatica a concentrarmi e quindi anche a leggere. Ma quando a un certo punto, durante quel periodo, sono tornato a casa dai miei e mi sono ritrovato nella mia camera di quando ero piccolo, attorniato dai libri di quando ero piccolo e mi sono riavvicinato alla lettura, ma non ai romanzi post moderni in cui lo stile era più importante di tutto. No, alle storie. Sai, quelle belle storie di una volta. È per questo che non mi vergogno affatto di dire che più che scrivere libri racconto storie.
Che differenza c’è?
Sai, in Inghilterra, ma forse anche in Italia, una certa critica tende a categorizzare la letteratura in modo netto: da una parte quella alta, seria e colta, e dall’altra la merda commerciale che quando la finisci la puoi buttare fuori dalla finestra. Ecco, io di questa distinzione me ne frego, perché puoi benissimo unire la ricerca e la profondità con una trama avvincente e che intrattiene.
Quindi se sei depresso è meglio che ti leggi Stephen King che Robert Musil?
Eheheheh, sì, sicuramente.
Sempre parlando di tempo, secondo te si stava meglio quando il mondo scorreva più lento?
In qualche modo mi verrebbe da dire che sì, si stava meglio quando vivevamo a una velocità inferiore. Ma con questo non voglio certo dire che voglio tornare indietro nel tempo, perché nel frattempo abbiamo ottenuto una tale quantità di miglioramenti — in termini medici, scientifici e tecnologici soprattutto — nel frattempo che sarebbe veramente idiota volerne fare a meno. Però quel che dici è vero: il punto è che abbiamo troppo di tutto. Questo è il problema. Crediamo che avere tanta scelta sia sempre un bene, ma in realtà quando superi un certo livello diventa un problema. Non sappiamo più cosa scegliere, siamo paralizzati. Quindi sì, credo che rallentare, soprattutto in certi momenti e in certi ambiti della nostra vita sia una possibile arma per contrastare questa sensazione di sovraffollamento e di vertigine in cui stiamo affogando.
Tornando al tema della depressione e dell’ansia, perché secondo te questo genere di problemi anche solo un paio di secoli fa erano sconosciuti? È veramente il male della modernità la depressione?
Probabilmente di casi ce ne sono sempre stati, magari non la chiamavano così. Però sono anche convinto che, se guardiamo il mondo occidentale, è impossibile negare che questi problemi stiano montando a una velocità esorbitante. Quindi, sì, deve esserci per forza un legame con quello che stiamo vivendo, soprattutto negli ultimi dieci anni.
Perché negli ultimi 10 anni?
Perché la tecnologia, soprattutto nel campo delle comunicazione, negli ultimi dieci anni ha fatto un salto di qualità e, per esempio, il fatto di essere connessi 24 ore su 24 non solo ci porta ad essere sempre più soli, ma ci porta anche a sviluppare delle dipendenze fortissime, alle notifiche, per esempio. Vogliamo sempre essere in contatto con tutti, e anche se non siamo realmente soli, ci sentiamo tali sempre di più. Anche lo stress è in aumento vertiginoso, ma soprattutto inizia sempre prima nella vita di una persona. Non so se qui in Italia è lo stesso, ma nel mio paese sottoponiamo a test ed esami scolastici da quando sono piccoli, a 10-11 anni, e questo mette i bambini in competizione e sotto stress. L’essere umano credo che stia affrontando, più in generale, una crisi del significato e dello scopo della propria esistenza.
Perché?
Perché piano piano stiamo venendo sostituiti da algoritmi, da macchine, da automazioni. Stiamo diventando sempre più irrilevanti.
Parlando di solitudine e di tessuto sociale disgregato, credi che la tecnologia possa anche aiutare a ricostituire questo tessuto sociale? O lo può solo impoverire?
No, credo che sia possibile, certo. Il pericolo però è che non stiamo pensando affatto agli effetti che la tecnologia sta avendo sulla nostra salute. La tecnologia è come il gelato, lo sappiamo benissimo che è buono, ma dobbiamo capire che se ne mangiamo sette chili in 24 ore, be’, non fa bene. Ecco, i social media, soprattutto per i giovani, credo che abbiano serie conseguenze sulla salute. Ma internet resta una delle più grandiose invenzione della storia dell’umanità, il problema è che, come ha detto qualcuno – penso di Google – internet è l’unica invenzione umana che l’uomo non ha ancora capito.