I terroristi? Sono i veri artisti contemporanei

Chi sparge il terrore in realtà, inconsapevolmente (e a volte consapevolmente) non fa altro che replicare i modelli delle avanguardie artistiche. Distruggere diventa il gesto esemplare di un’umanità isolata, che non vuole arrendersi allo stato delle cose

Dacci oggi il terrore quotidiano. Il terrore che è il rovescio della democrazia, il suo doppio segreto e insostituibile, il suo miglior nemico. Perché nulla come il terrore genera assetti politici, suscita desideri, costruisce identità e immaginario. Guerriglieri, folli isolati e fanatici religiosi; regimi autoritari che praticano la violenza di Stato e regimi democratici che ordinano bombardamenti o torture; aerei dirottati, camion dirottati, spari all’impazzata nei luoghi pubblici: sono il metronomo del presente, la mitologia giornaliera di una specie che si nutre di simboli come quella umana.

Eppure nessuno si definisce terrorista: il terrorismo è sempre la violenza dell’altro. Eppure nessuna definizione permette di carpire la natura del terrore, perché non bastano la morte o la paura a distinguerlo da altre forme di violenza, e non basta il suo intento prettamente comunicativo, se è vero che in ogni violenza politica la vittima è il messaggio. Al centro del terrore c’è un vuoto, pronto a ricevere da noi impotenza e paura, violenza e desiderio, per restituire immaginario, identità e fantasmi. In una parola: mito. La letteratura cala i personaggi in quel vuoto. Non spiega cos’è o come funziona: ci mostra cosa succede ad abitarlo. Non chiarisce com’è fatto il terrore ma ci permette di profanare la sua sacralità, di farne esperienza lasciandoci indossare i panni del mostro.

È quello che fanno gli autori attorno a cui si snoda All’ordine del giorno è il terrore, da Artaud a Ballard, da Dostoevskij a Updike, da Sade a Ellroy. Attraverso i loro testi, Daniele Giglioli decostruisce la più potente macchina narrativa contemporanea, mostrando come tra i suoi fumi sulfurei si celi l’impotenza del soggetto moderno, la fragilità dei nessi sociali, l’estromissione dell’individuo dalla sfera pubblica. Il terrorista è uno di noi: uno spettatore, un escluso. Questo sembra dirci il killer per caso, l’emarginato Oswald in Libra di Don DeLillo, finalmente inquadrato dalla telecamera nel momento della morte: «Requisito nel cielo senza atmosfera della gloria mediatica, il suo quarto d’ora di celebrità durerà in eterno».

Daniele Giglioli insegna Letterature comparate all’Università di Bergamo. Tra le sue opere ricordiamo Tema (La Nuova Italia, 2001), Il pedagogo e il libertino (Sestante, 2002), Senza trauma (Quodlibet, 2011), Critica della vittima (nottetempo, 2014), Stato di minorità (Laterza, 2015). Collabora con il Corriere della Sera e la Neue Zürcher Zeitung.

Un estratto da All’ordine del giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia di Daniele Gilioli (Il Saggiatore)

Coi terroristi non si tratta. Si può parlare di loro ma non con loro, almeno ufficialmente (sottobanco è diverso) e almeno finché restano tali: poi, una volta fuori combattimento e meglio ancora se pentiti, si aprano pure le cateratte delle interviste, dei dibattiti e della memorialistica.

È più che una strategia o un protocollo per i governi o per i media:dire terrorista significa togliere la parola, creare un’area di interdetto, un punto cieco nella catena del linguaggio, una zona morta nel flusso della comunicazione. Negazione di riconoscimento che coglie correttamente la dominante comunicativa del fenomeno terroristico, ma che nello stesso tempo lo potenzia, isolandolo nella sua separatezza, conferendogli la possibilità di parlare da solo, senza feedback, senza contraddittorio, liberato com’è dalla necessità di rispondere delle proprie azioni. Le invettive che lo colpiscono non sono confutazioni ma anatemi, e anche le analisi scientifiche più oneste e spassionate non possono che reificare un soggetto in un oggetto di discorso, degradandolo e insieme paradossalmente sollevandolo dalla responsabilità di rendere conto, di argomentare e proprio perciò di sottomettersi all’argomentazione dell’altro. Impossibilitato – per sua fortuna e sfortuna – a rispondere, il terrorismo diventa un discorso assoluto,autoreferenziale, sciolto da ogni vincolo, esente da ogni verifica intersoggettiva.

Che il terrorismo sia strutturato come una performance comunicativa è ormai una convinzione diffusa. Alla vigilia del delitto Moro Marshall McLuhan propose di attuare un black out informativo di sei mesi che oscurasse ogni manifestazione terroristica sull’intero scenario mondiale: una volta staccata la spina, niente più comunicazione e dunque niente più terrorismo. Una soluzione semplicistica e non a caso mai attuata. Non solo perché, come ha scritto Peter Sloterdijk, le organizzazioni terroristiche rappresentano per i media dei preziosi fornitori di contenuti in outsourcing,e la rescissione di quel tacito contratto contraddirebbe a tutte le leggi scritte e non scritte dell’«intrattenimento globalizzato». Ma perché quella forma di atto enunciativo assoluto, che non risponde ad altri che a sé stesso, sta diventando asintoticamente la condizione enunciativa (ed esistenziale) di ogni soggettività nell’universo della «mediatizzazione totale». Io parlo, e nel far questo mi affermo, e non devo negoziare con nessuno il contenuto dei miei enunciati, i valori a cui fanno riferimento, le implicazioni che sottendono: unica preoccupazione è che buchino lo schermo, che trovino un posto anche infimo nel palinsesto, offrendomi quel quarto d’ora di esistenza in video che sola mi garantisce di esistere davvero. Che poi per farlo io debba sottomettermi alla potenza degli stereotipi, che la mia soggettività assoluta non sia altro in realtà che un essere parlato dal discorso di un’oggettività altrettanto assoluta, non contraddice allo schema ma lo conferma pienamente. Il rifiuto della mediazione si rovescia in mediazione totale. Per convincersene, basta guardare un talk show o seguire un dibattito in rete. In questo azzeramento di ogni dimensione dialettica, il terrorista è nostro fratello molto più di quanto ci piacerebbe credere.

Un linguaggio privato

Nel suo pretendersi «avanguardia», il terrorismo attinge a piene mani dalla sfera dell’estetica moderna. Non solo i suoi procedimenti comunicativi, ma le sue stesse mappe categoriali sono profondamente compromesse con quella linea di rivendicazione della sovranità espressiva del soggetto che dal romanticismo tedesco arriva al simbolismo francese e si comunica per contagio all’intera galassia dell’arte d’avanguardia. Rifiuto della mediazione, introiezione del negativo, rottura delle forme di comunicazione tradizionalmente autorizzate, contestazione dei luoghi deputati alla messa in scena del discorso artistico, ripudio del linguaggio comune, svalutato come inautentico a vantaggio di un linguaggio privato e autonomo che crea da sé stesso la propria grammatica. Infranta ogni possibilità di attenersi all’oggettivo, ognuno approfondisca con la massima radicalità la propria idiosincrasia. Solo dal totale abbandono all’assolutezza della propria soggettività, ha scritto Friedrich Schlegel nel frammento 139 dell’«Athenàum», potrà forse escatologicamente scaturire un giorno una nuova universalità dell’essere e del sentire: «Dal punto di vista romantico anche le degenerazioni della poesia, persino quelle eccentriche e mostruose, hanno il loro valore in quanto materiali ed esercizi propedeutici dell’universalità, purché ci sia in esse qualcosa, purché siano originali». Solo il frammento può alludere a una possibile unità perduta o ritrovata. Ma perché vi sia frammento occorre prima distruggere.

«La distruzione fu la mia Beatrice», scriveva nel 1867 Stéphane Mallarmé, che simpatizzò, insieme a tutta la sua cerchia, con la causa degli attentatori anarchici fino a testimoniare a loro favore nel famoso «processo dei Trenta» – fu lui a definirli significativamente «angeli di purezza». Tra movimento simbolista e movimento anarchico le intersezioni furono molteplici. A favore dell’anarchia si schierarono scrittori come Octave Mirbeau, Francis Vielé-Griffin ed Émile Verhaeren. Leconte de Lisle, Remy de Gourmont, Pissarro, Signac, Huysmans, Daudet, erano abbonati a La Révolte. Félix Fénéon fu inquisito al processo dei Trenta, e non a caso Albert Thibaudet ha parlato di un «blanquismo» artistico della generazione simbolista. Distruzione della società e rifiuto della versificazione regolare («on a touché au vers»: Mallarmé), attentati e anomalie sintattiche poterono sembrare parte di un medesimo processo. L’anarchia è l’unica vera dottrina politica dei decadenti scriveva Remy de Gourmont. Purché l’individualità si affermi che importa se si perde qualche vita? Che cosa conta la morale comune «si le geste est beau?» Con queste parole Laurent Tailhade commentava la bomba piena di chiodi che nel 1893 l’anarchico Auguste Vaillant lanciò alla Camera dei deputati per protestare contro lo scandalo di Panama. Un anno dopo, lui stesso perdeva un occhio per una bomba esplosa nel ristorante dove stava cenando.

Ma più che l’aneddotica ci interessano qui i legami profondi, le analogie di struttura tra simbolismo e terrorismo anarchico. In primo luogo il postulato di un’irriducibilità del soggetto all’ordine simbolico dato, stabilito, che ha la sua prima radice nel linguaggio articolato. Creazione di un linguaggio privato o rifiuto del linguaggio verbale per affidarsi alla «propaganda attraverso il fatto», come la chiamò l’anarchico russo Kropotkin: due pratiche diverse per rispondere a una medesima esigenza. Nessuna parola vera può più essere detta in quella che Mallarmé chiamava «la lingua della tribù». Nessuna istituzione può più farsi carico di rappresentare la soggettività. Isolamento, dunque, ermetismo, rifiuto del senso socialmente condiviso, scissione del proprio messaggio in un doppio versante essoterico ed esoterico – né il poema né la bomba dicono la stessa cosa alla massa bruta e alla cerchia degli adepti. Linguaggio che rifiuta la propria natura di parola ripetibile e scambiabile come una moneta per tentare di farsi esso stesso gesto, nuovo inizio, evento assoluto.

Gli anni in cui il terrorismo anarchico è di moda tra gli intellettuali sono gli stessi in cui il codice dell’isteria, che abbiamo già incontrato, domina l’immaginario sociale con la sua pretesa di esprimere con il corpo, attraverso il simbolismo privato ed eccessivo del sintomo, ciò che non può essere detto con la lingua: la sovrabbondanza degli stimoli, il desiderio rimosso, la pulsione senza voce testardamente dedita alla propria meta. Tra l’immediatezza del sentire e la sua comunicazione si è scavato un solco invalicabile, che solo la violenza o la malattia possono colmare. Tutto ciò che è mediato, condizionato, accettabile, deve essere distrutto. A parlare dev’essere solo l’Io-è-un-altro che è in noi, senza riguardo a ciò che può pensare l’altro che ci guarda scettico dal versante opposto della strada. Al dominio dell’utile si risponde, come il Lafcadio di Gide nei Sotterranei del Vaticano, con la mistica dell’atto gratuito, insensato, incondizionato, inspiegabile e irreparabile. Le motivazioni sociali passano in secondo piano; ciò che conta è la rottura, lo scarto dal codice, l’affermazione di sé attraverso la negazione, non l’espressione di un qualsivoglia contenuto ma la messa in scena della propria facoltà di comunicare, non importa cosa, non importa a chi.

Gli altri non capiranno? Tanto meglio. In un raccontino dal sapore lucianesco intitolato L’Anarchia, Marcel Schwob racconta di un viaggio all’isola degli «eleuteromani», che in odio alla possibilità di essere influenzati dagli altri si sono tagliati le orecchie e dopo aver distrutto ogni forma di vita associata conducono un’esistenza tutta all’insegna dell’idiosincrasia. Mangiano radici, bevono allo stagno perché non possiedono vasellame, girano nudi e permettono gli stupri e gli assassini perché non si sognerebbero mai di proibire alcunché. Per dimostrare a sé stessi che sono in grado di non sottostare nemmeno alle loro stesse decisioni cambiano idea continuamente, camminano sulle mani, cercano di assumere il cibo «dalla parte opposta dell’intestino colon», si sforzano di urinare all’indietro e mangiano i propri escrementi bolliti per non sottomettersi ai comandamenti della natura. Per evitare che a qualcuno di loro venga in mente di istituirsi a tiranno, si tramandano di padre in figlio una sostanza simile all’argilla e di colore giallino, che avvicinata al fuoco esplode con un rumore spaventoso, abbatte gli alberi e scuote la terra dalle fondamenta. A questa sostanza, che ognuno possiede in quantità eguale, hanno dato il nome di «Potenza», o di «Energia».

Sotto il velo della canzonatura, traspare nella parabola di Schwob un’inquietudine, uno scacco, uno stato di frustrazione non congiunturale. Con ironia più sottile e vertiginosa anche Mallarmé, nella sua famosa conferenza inglese del 1894 (La musica e le lettere) aveva paragonato la sua rivoluzione letteraria a un «attentato» e il poeta a un «esplosivo» preoccupato sopra ogni altra cosa di garantirsi la «definitiva incomprensione» delle autorità costituite. Ma sapeva bene che per ottenere questo risultato non poteva addizionare alla sua bomba poetica «i chiodi e le pallottole» in dotazione agli attentatori reali; e che trasformare un atto di linguaggio in un evento assoluto è possibile solo nella forma di un continuo rimando all’infinito – o nella scelta del silenzio.

La trasparenza del cliché

Da qui il rigetto della separazione di arte e prassi che è la cifra unificante di tutte le avanguardie storiche. All’hortus conclusus simbolista bisogna opporre il rifiuto della figuralità dei propri enunciati, e dell’arte stessa in quanto velo, schermo, provincia dell’essere a statuto speciale. È tempo che l’artista-terrorista scenda in strada. Marinetti esalta «il gesto distruttore dei libertari» e cita il «vivre sa vie» dell’anarchico Bonnot. Tzara proclama che in un testo Dada «ogni pagina deve essere un’esplosione» per preparare il «grandioso spettacolo del cataclisma, dell’incendio, della decomposizione», perché la rigenerazione di un individuo «non può nascere che da uno stato di follia, di follia aggressiva, completa, da un mondo lasciato in mano ai banditi che si distruggono e distruggono i secoli». Breton scrive che perfetto surrealismo è sparare un colpo di pistola sulla folla. Palazzeschi si prostra davanti alla gabbia in cui è stato rinchiuso un incendiario, anche se sa bene che il suo è un omaggio da «povero incendiario mancato, / incendiario da poesia».

Questo è il punto. Un terrorista evocato in poesia non smette certo di essere una metafora, e sostenere come fa Artaud che «l’immagine di un delitto presentata nelle dovute forme teatrali è infinitamente più temibile di quel medesimo delitto, se realizzato», è solo la rappresentazione allucinatoria di un desiderio impossibile da soddisfare nella vita diurna, il sogno di una condizione di onnipotenza magica che è il rovescio esatto della propria impotenza reale. Non diventa matto chi vuole, non si esce dall’arte con i mezzi dell’arte. Il significato più profondo del terrorismo avanguardistico risiede esattamente nella messa in forma di una malafede, di un collasso adialettico tra rifiuto e ansia di comunicare, nella conferma stizzita della propria separatezza, che è la stessa in cui vive e si riproduce il terrorismo reale. Chi vuol fare l’angelo fa la bestia: esaltando il terrorista l’artista d’avanguardia mette a nudo la sua contraddizione, denuncia il suo isolamento, la sua autoreferenzialità di macchina celibe. La vita è altrove, e artisti e terroristi la inseguono affannosamente con le loro lingue mozze.

Nel 1936 Jean Paulhan ha chiamato «Terrore nelle lettere» quell’atteggiamento di sospetto nei confronti del linguaggio – accusato di essere costitutivamente infedele alla purezza del pensiero vissuto perché contaminato dal «già detto» e dal «già pensato» in cui si iscrive – che è il punto d’onore della modernità letteraria. Postosi il compito di esprimere un’esperienza vergine, originale, irripetibile, lo scrittore trova di fronte a sé una sterminata raccolta di clichés,di frasi fatte, di immagini già date, e, più radicalmente ancora, la stessa convenzionalità del linguaggio in quanto istituto sociale. Da questo consegue la ricerca spasmodica del nuovo, valore in sé stesso e garanzia dell’impensato. Nella loro ossessione per l’immediatezza, Terrore e modernità sono sinonimi. E il vero filosofo del Terrore è non a caso quel Bergson che ha tentato in ogni modo di risalire ai dati immediati della coscienza: «La nostra vita interiore, stando a quanto dice Bergson, non giunge all’espressione senza perdere, strada facendo, la sua parte più preziosa. In ogni momento, lo spirito si trova oppresso dal linguaggio. E ogni uomo, infine, quando cerca di cogliere il suo pensiero più autentico, deve rimuovere un’incrostazione di parole, sempre pronta a riformarsi, i cui aspetti più evidenti sono i luoghi comuni, i clichés,le convenzioni».

Di qui, per Paulhan, che anticipa sorprendentemente molte poetiche del postmoderno, la riabilitazione della retorica come consapevolezza preventiva e contrattata della convenzionalità delle forme, trasparenza riflessa, di secondo grado, rivendicazione del «comune» insito nel luogo comune, accettazione adulta della mediazione da opporre al sogno di autotrasparenza dell’espressione individuale che è tipico della concezione terroristica moderna, dalle fantasticherie di disvelamento di Rousseau, oppresso dalla costitutiva opacità dell’esistenza associata, all’ossessione di purezza che anima il predicatore fondamentalista algerino ritratto da Yasmina Khadra in Cosa sognano i lupi: «Perché noi abbiamo rinunciato a tutti gli orpelli illusori, abbiamo scelto il cammino della nudità in cui tutto è chiaro, senza artifici né camuffamenti. L’ultimo giorno, l’ipocrita dovrà togliersi la maschera, l’ostentatore dovrà spogliarsi: davanti agli occhi dell’Onnipotente verrà mostrata solo la nudità dei nostri fatti. Oggi essa è la nostra sincerità, dimostra che non abbiamo nulla da nascondere…». Un panopticon paranoico impossibile e controproducente: l’espressione immediata di chi non ha nulla da nascondere mostra solo ciò che tutti sanno già. Non c’è peggiore resa ai clichés di quella di chi crede di essersene definitivamente emendato.

Breaking News?

Per sfuggire a questa condanna, per garantirsi la possibilità di esprimere un evento assoluto, il modernismo artistico ha perseguito terroristicamente una poetica dello choc. Ma anche il gesto che ha prodotto lo choc è infinitamente ripetibile, riproducibile, e genera automaticamente, come ha mostrato Peter Bürger in Teoria dell’avanguardia, «un’aspettativa di choc» che nega in radice la sua possibilità di essere un’esperienza unica» dopo la quale «nulla sarà più come prima».

Non lo si è ripetuto fino alla noia dopo la performance terroristica dell’11 settembre? L’omaggio che artisti come Karlheinz Stockhausen e Damien Hirst hanno rivolto agli attentatori delle due torri («un’opera d’arte cosmica» ecc.), peggio ancora che immorale, è esteticamente stupido (per parafrasare un grande esteta immoralista come Oscar Wilde): nulla più delle immagini delle torri in fiamme che crollano in un diluvio di polvere e macerie si è prestato a divenire immediatamente cliché,icona televisiva, luogo di addensamento e manipolazione dell’immaginario collettivo. Anche perché, come hanno ricordato Baudrillard e Žižek tra gli altri, quel gesto proveniva a sua volta da un immaginario già profondamente permeato dal catastrofismo insito nella logica della notizia, della novità, dello choc, appunto, che guida con ferrea e impersonale coerenza la programmazione e la produzione di spettacolo dei media. Più che dell’Islam radicale, gli attentatori dell’11 settembre sono figli, ha scritto Gilles Kepel, «della rivoluzione informatica e della mondializzazione all’americana», sono «i fratelli di latte degli hackers e dei golden boyssotto le loro barbe e i costumi islamici da sceneggiato televisivo». Il loro modo di desiderare, di sperare e di temere è identico a quello delle loro vittime, e dei loro spettatori. L’immaginario che li ha guidati nella ricerca di qualcosa di inedito, inatteso, sconvolgente, era già interamente socializzato, grammaticalizzato, alla lettera pre-visto.

Da molti anni ho un incubo ricorrente che riguarda la fine del mondo, ha intitolato Jonathan Franzen un suo scritto sull’11 settembre. Non lui solo. Lo sognava da tempo l’intera modernità nella sua identificazione compulsiva del valore con la novità e di questa con la morte. La bellezza, scriveva Valéry, è «una sorta di morte. La novità, l’intensità, la stranezza, in una parola tutti i valori di choc l’hanno soppiantata». Quell’intesa segreta con «le potenze della dissoluzione» che secondo Benjamin è la legge della poesia di Baudelaire, è diventata un’esperienza comune ben prima che gli aerei kamikaze ripetessero le gesta del Battello ebbro di Rimbaud, lanciato senza rimpianti alla ricerca di un ritorno al Tohu-bohu,al caos primordiale evocato nei primi versetti della Genesi. La coazione alla novità e la poetica dello choc, di cui il terrorismo si serve, sono da sempre il primo articolo della carta costituzionale dei network.L’«Io è un altro» di Rimbaud è stato realizzato dalla società dello spettacolo: l’altro che parla al posto dell’Io fiaccato dalla sovrabbondanza degli stimoli (Rimbaud diceva dallo sregolamento sistematico dei sensi) non è però il misterioso compagno segreto relegato nelle profondità dell’inconscio, ma un inconscio a cielo aperto, un Grande Altro già perfettamente preformato dai «rulli» senza sosta della comunicazione, un nastro di Möbius che si riavvolge e si rigenera da sé stesso.

Non solo perché, come ha scritto Franco Fortini, il surrealismo è diventato «pratica di massa» in una società in cui le innovazioni tecniche e le sperimentazioni stilistiche delle avanguardie sono ormai da tempo il pane quotidiano dei pubblicitari, dei produttori televisivi, degli esperti di marketing e degli spin doctorsaddetti alla comunicazione politica. Ma perché la stessa esperienza vissuta si è strutturata sempre più come un testo d’avanguardia: collages,objets trouvés, citazioni fuori contesto, riusi arbitrarii, cortocircuiti logici, isolamento delle singole parti del discorso, giustapposizione di membri irrelati, assenza di ogni sintesi, costituiscono a pieno titolo la grammatica del rapporto tra i prodotti e i fruitori dell’industria culturale.

Nel 1920 André Gide pubblicò sulla Nouvelle Revue Françaiseun elogio di Dada che potrebbe perfettamente figurare in esergo a qualunque manuale di scienza delle comunicazioni. Le parole, scrive Gide, «occorre dissociarle dalla loro storia, dal loro passato che le appesantiva di un fardello inerte. Ogni vocabolo-isolotto deve, nella pagina, presentare un contorno spezzato, netto. Sarà collocato qui (o là, altrettanto bene) come un tono puro; e non lontano vibreranno altri toni puri, ma secondo un’assenza di rapporti tale che non autorizza alcuna associazione di pensieri. Così la parola sarà liberata da ogni suo significato precedente, e infine dall’evocazione del passato». Ma non è esattamente così che funzionano i procedimenti della comunicazione mediatica? «Se la stampa si proponesse di far sì che il lettore possa appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza – ha scritto Benjamin –, mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto, ed essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore. I principi dell’informazione giornalistica (novità, brevità, intelligibilità, e, soprattutto, mancanza di ogni connessione tra le singole notizie), contribuiscono a questo effetto non meno dell’impaginazione e della forma linguistica.»

Dalla ricerca di innocenza delle avanguardie all’assenza di memoria dell’homo videns; dalla lotta contro i significati già istituiti dalla tradizione, al loro svuotamento in significanti manipolabili a piacere; dall’esperienza messa in questione dalla modernità alla compiuta inesperienza della postmodernità spettacolare, il passo è ormai compiuto. Nata con l’ambizione di emancipare il soggetto dalla sottomissione alla totalità sociale, la pratica terroristica si converte in resa incondizionata all’oggettività anonima e senza fessure dell’universo della comunicazione, un universo che si contrappone al soggetto nella forma di una vera e propria seconda natura, un ambiente esterno e interno in cui agire non secondo volontà ma secondo istinti, una grammatica senza alcuna possibilità di innovazione. Come stupirsi se il suo ultimo avatar è quello dell’autosacrificio, del suicidio volontario, del martirio? Un martirio che crede, come già l’«agonismo» avanguardistico prima di lui, di immolarsi in nome del futuro, e che invece sacrifica sé stesso e le sue vittime a un «Moloch della storicità» (come lo ha chiamato Renato Poggioli) che ha l’impassibile fatticità del sempreuguale.

Lo stupido sublime

Per dare un nome allo choc dell’11 settembre è stata spesso evocata l’idea kantiana del sublime. Lo hanno fatto tra gli altri Gayatri Spivak in America e Marco Belpoliti in Italia. Il riferimento è pertinente ma necessita di integrazioni. Nato dalla contemplazione dell’«assolutamente grande» e dell’«assolutamente potente», il sublime è per Kant non un oggetto ma uno stato d’animo, strutturato secondo un movimento a due tempi. A un senso di smarrimento insorto nel soggetto dalla percezione di un evento che eccede i limiti della sua sensibilità, succede un rinsaldamento dell’Io derivante dalla constatazione della superiore potenza della sua facoltà razionale, che può concepire ciò che non riesce a immaginare. Al dispiacere fa seguito il compiacimento, al senso di piccolezza la fierezza di sé, alla paura della finitudine l’orgoglio per la superiore trascendenza della razionalità, e per l’indipendenza della moralità. «Sublime è ciò che, anche solo a poterlo pensare, attesta una facoltà dell’animo che supera la misura dei sensi». Sublime è ciò che testimonia il rifiuto di sottomettersi a una potenza che ci oltrepassa fisicamente ma che ci resta infinitamente inferiore dal punto di vista morale.

Il che potrebbe sembrare, a un primo sguardo, una caratterizzazione esatta del punto di vista dell’attentatore più che dello spettatore. Sublime sono io, non le due torri, pur con tutta la loro altezza e la potenza che racchiudono, sublime è la mia «destinazione» di essere morale, la mia capacità di andare al di là della mera «inclinazione» a conservare l’integrità fisica. Ma è davvero così? Che ne è dell’Io dell’attentatore ora che il suo corpo è impastato insieme alla polvere delle due torri? Lasciamo pure impregiudicata la questione su dove si trovi la sua anima. Ma la sua azione distruttrice non può in alcun modo essere vista come una vera contrapposizione all’oggetto che ha investito. Perché quell’oggetto non è tanto un oggetto e nemmeno un simbolo quanto piuttosto un surrogato,un feticcio: non si abbatte il commercio mondiale buttando giù le torri che ne ospitano gli uffici. Nel suo tentativo di far collassare insieme al simbolo la cosa, l’attentatore del wtcha accettato di combattere sul terreno dell’avversario, ha contrapposto simulacro a simulacro, si è fuso con le sue stesse modalità di organizzazione dell’esperienza. Invece di contestarne la natura di segno ideologico, di coscienza rovesciata che copre coi suoi fasti la realtà del commercio mondiale, si è limitato a vampirizzare parassitariamente la sua efficacia comunicativa, offrendogli in cambio l’olocausto della propria partecipazione alla muraglia cinese di false immagini con cui si legittima.

Nessuna superiorità sull’oggetto, dunque, ma una connivente complanarità, e anzi una subalternità alla sua potenza, un soccombere alla sua grandezza, una filiale richiesta di chiamata all’esistenza: rendimi grande quanto tu sei grande, liberami dal mio Io imperfetto e limitato nel clamore glorioso della nostra comune distruzione. Più che a Kant, è perciò al sublime descritto prima di lui da Edmund Burke che dobbiamo rivolgerci, dove l’accento cade, piuttosto che sulla reintegrazione dell’Io, sulla sua dissoluzione nell’immensità dell’altro, chiamata di volta in volta paralisi della ragione, blocco della volontà, smarrimento, desiderio di essere sottomessi fino all’annichilimento, soggezione, sottomissione, in una parola: Terrore. Un sentimento su cui non a caso Burke insiste molto più di Kant. «Dove “terrore” è uno stato d’animo», ha scritto Gayatri Spivak, «la linea tra agente e oggetto vacilla.» Resa incondizionata della soggettività all’oggettività, reificazione entusiasticamente perseguita, il sublime del terrorista suicida è alla lettera «stupido», un’esperienza solo apparentemente attiva e in realtà radicalmente subìta che comincia «quando si vede se stessi come un oggetto, capace di distruzione, in un mondo di oggetti, cosicché la distruzione degli altri è indistinguibile dalla distruzione di sé».

Ma è una stupidità che viene da lontano – e insieme, in un certo senso, da troppo vicino perché anche lo spettatore «normale» possa sentirsene al sicuro. Nella maschera dell’attentatore suicida confluiscono, estremizzate fino alla parodia, molte controfigure che la soggettività moderna aveva chiesto agli artisti di impersonare in nome suo. Per esempio il dandy,che come ha mostrato Giorgio Agamben interiorizza nel proprio disciplinamento corporeo il marxiano «carattere di feticcio della merce», con tutti i suoi «capricci teologici», e che con il suo ascetismo dell’inezia, del futile e dell’irrilevante, si sforza non di mostrarsi originale come comunemente si crede, ma di cancellare al contrario «da sé ogni traccia di personalità» fino a divenire distruttivamente egli stesso oggetto tra gli oggetti, cosa tra le cose: «la redenzione delle cose non è possibile che a patto di diventare cosa. Come l’opera d’arte deve distruggere e alienare se stessa per diventare merce assoluta, così l’artista-dandy deve diventare un cadavere vivente, costantemente teso verso un altro,una creatura essenzialmente non umana e antiumana». Oppure il saltimbanco, il clown,malinconico senhal dell’artista d’avanguardia e del suo disagio, espressione di quel coacervo contraddittorio di sublime e di grottesco in cui Victor Hugo intravedeva la cifra della poetica romantica, che si umilia perché ha introiettato la propria degradazione e si identifica masochisticamente con l’immagine derisoria che ha di lui la sordida e filistea modernità borghese, mentre spera nello stesso tempo di salvarsene correndo via lungo il filo teso della sua acrobazia, scomparendo nelle esplosioni di stupore infantile della sua mistificazione, o ascendendo al cielo sospinto dal gas esilarante della sua comicità.

Terroristi dandy ne abbiamo già incontrati; e anche un terrorista saltimbanco, lo Shalimar il clown di Salman Rushdie. E basterebbe mescolarli un po’ e trasferirci tra le pagine di Glamorama di Bret Easton Ellis per incontrare il loro pronipote postmoderno, il terrorista star,l’indossatore, il manichino, la divinità di celluloide, l’abitatore dell’Olimpo luccicante dei video e della carta patinata, in cui l’abilità e la futilità si sono fuse nell’apparenza sublime della stupidità definitiva. Ad accomunarli, la natura intrinsecamente sacrificale, vittimaria, autoimmolatoria della loro prestazione comunicativa, il loro accamparsi nella dissolvenza, il loro ricondurre a cosa inanimata, insieme immagine e cadavere (perché il cadavere, come sapeva Blanchot, è l’immagine per eccellenza, è anzi «la sua propria immagine»), quell’apparato senziente di carne, ossa e nervi che è tutto ciò che abbiamo.

Turisti e kamikaze

A ciò non contrasta la matrice religiosa del terrorismo suicida più recente. Sulla quale, d’altronde, gode di un consenso unanime tra i competenti l’opinione che si tratti di un fenomeno assolutamente moderno, originale, inedito, non un ritorno al passato ma il prodotto di una nuova e problematica ridislocazione del «potere delle identità» nell’universo globale della «società in rete», come l’ha chiamata Manuel Castells. Questo vale anche e soprattutto per l’etica – e l’estetica – del martirio. Esso offre infatti, sostiene Farhad Khosrokhavar in I nuovi martiri di Allah, «la possibilità alle persone moderne, ma che sono nell’impossibilità di realizzarsi secondo i propri desideri, la terribile capacità di affermarsi attraverso la morte. Il martirio ha questa temibile capacità di rendere possibile il costituirsi dell’individuo nella morte,in assenza di un’individualità effettiva che si accompagni a un’autonomia politica, economica e culturale. Assillate da queste aspirazioni e desideri di modernità, le nuove generazioni destrutturate, non protette dalle comunità tradizionali e abbandonate a una modernità puramente onirica, trovano nel martirio un’occasione di definirsi come individui con la promessa di godere, post mortem,di ciò che è stato negato loro in vita, cioè un’esistenza paradisiaca». Mosso da un’ottimistica fiducia nel premio immediatamente disponibile – come una merce non più sottoposta ai vincoli del principio di realtà – nell’oltremondo del sovrannaturale, o da una pessimistica svalutazione dell’universo sensibile con i suoi limiti e le sue interdizioni, il terrorismo suicida presuppone un’«inversione dell’affettività» per cui la vita è male, e perfetta letizia è invece l’autoannullamento della morte volontaria. Una dissonanza cognitiva intimamente apparentata a quel «piacere negativo» che costituisce il principio dinamico del sublime moderno.

Non a caso, d’altronde, anche Sayyid Qutb, padre nobile del radicalismo islamico contemporaneo, ideologo dei Fratelli Musulmani e fonte di ispirazione per gli intellettuali di al-Qaeda, era stato profondamente influenzato dalla dottrina del sublime romantico, appreso attraverso la lettura di Kant e Coleridge, e aveva elaborato, scrive Malise Ruthven in Il seme del terrore,un concetto di avanguardia militante che non ha riscontri nella cultura musulmana ed è piuttosto debitore della tradizione rivoluzionaria europea. E lo stesso Khomeini, cui va la prima responsabilità nella moderna metastasi del concetto islamico di martirio, dall’idea di morte in battaglia a quella di suicidio volontario, ha improntato secondo Khosrokhavar la sua predicazione a un «estremo soggettivismo, quale si ritrova in numerosi pensatori radicali moderni», in cui l’accento batte su «emozioni come la paura, la forza d’animo, l’onore, la volontà di vincere, l’identità musulmana sottratta al dubbio e rinvigorita dal ricorso ad Allah».

Proprio perché è così intimamente «contaminato», ibrido, eteroclito, al terrorismo suicida occorre un setting di polarizzazione assoluta, una sceneggiatura «Noi/Loro» che lo ponga illusoriamente al riparo da qualunque sospetto di compromissione e ambiguità. Ma già questo scenario è di per sé profondamente ambiguo, e accomuna non a caso i fondamentalisti islamici e i «cristiani rinati» che danno loro la caccia (senza dire, poi, che la polarizzazione è la regola aurea del linguaggio dei media). L’ossessione per la purezza maschera la coscienza della mescolanza. L’intransitività autoreferenziale nasconde il desiderio di riconoscimento. L’esasperazione dell’alterità esorcizza il contagio delle somiglianze. L’evocazione della trascendenza rende monolitica l’immanenza, sottratta al gioco dei suoi molteplici possibili – e dunque, ancora una volta, intimamente stupida.

Aggiungiamo perciò alla paranoia e all’isteria un’altra metafora psicopatologica, e cioè la schizofrenia intesa, suggerisce Baudrillard, come terrore della prossimità: «una prossimità troppo grande di tutto, una promiscuità infetta di qualsiasi cosa» che investe lo schizofrenico «senza nessuna resistenza, senza che nessun alone, nessuna aura, neppure quella del proprio corpo, lo proteggano. Lo schizofrenico è aperto a tutto contro la sua volontà, vive nella più grande confusione. È la preda dell’oscenità del mondo. Ciò che lo caratterizza non è tanto la perdita del reale, come si dice abitualmente, quanto questa prossimità assoluta e questa istantaneità totale delle cose, questa sovraesposizione alla trasparenza del mondo». Di qui la necessità di porre argini, e di amputare da sé la parte infetta, compito impossibile che può essere portato a termine attraverso l’autodistruzione.

In questa chiave va inteso anche il puritanesimo sessuale (su cui si è speculato e psicologizzato molto e male, specie a partire dal testamento di Mohammed Atta, che non voleva donne al suo funerale, e dunque ecc. ecc. ecc.), che il terrorismo fondamentalista condivide con il mainstream della tradizione rivoluzionaria europea: i puritani di Cromwell che chiudono i teatri, la severità di costumi dei giacobini e così via. Si tratta di un formidabile operatore simbolico, di un marker identitario, di un dispositivo di diversificazione antropologica che opera a un livello ben più profondo della mera propaganda («loro» corrotti, «noi» puri, è chiaro che vinceremo noi), nella sua capacità di articolare il desiderio sessuale, luogo della fusione, dell’indistinzione, dell’oltrepassamento di barriere, e quel «desiderio di rigidità che è in tutti noi» e che associa automaticamente, come ci insegna Mary Douglas, l’idea di purezza a quella di protezione dal pericolo. Ma impuro per eccellenza non è ciò che rimane lontano, separato, escluso dalla zona del contatto, quanto ciò che è fin troppo prossimo, in un rapporto di correlazione più che di contrarietà con la sfera del «noi».

Considerati da questo punto di vista, la miriade di campi di addestramento del terrorismo internazionale unificati dal logo di al-Qaeda o dei suoi succedanei – dove si apprende il Jihad insieme come lotta all’infedele e come purificazione personale, e dove lo Shalimar il clown di Rushdie viaggia di non-luogo in non-luogo come il più indaffarato degli executives –, sono l’equivalente rovesciato delle grandi catene di villaggi turistici in cui la middle class internazionale celebra i suoi saturnalilow cost. Lo ha ben compreso a suo modo Michel Houellebecq, che in Piattaforma ha messo in scena il progetto di creare una «Nouvelles frontières» del turismo sessuale, progetto fallito a causa di un attentato di matrice islamica in cui perde la vita la compagna di vita e di affari del protagonista. Perché hanno colpito proprio lì, in Thailandia, che non è terra d’Islam né «territorio della guerra»? Perché il loro problema, spiega all’eroe rimasto solo un banchiere giordano, è che il paradiso promesso dal Profeta esiste già nella vita terrena: «lì in Thailandia, per esempio, c’erano posti dove femmine lascive ballavano per il piacere dei maschi, posti dove ci si poteva inebriare di nettari prelibati ascoltando musiche celestiali […]. Erano luoghi facilmente accessibili, per entrarvi non occorreva ottemperare ai santi doveri del musulmano, né votarsi alla guerra santa. E per rendersi conto dell’esistenza di quel paradiso non c’era neanche bisogno di viaggiare: bastava avere un’antenna parabolica. Secondo lui il sistema musulmano era spacciato: il capitalismo lo avrebbe schiacciato».

Prognosi grossolana a parte, il nocciolo del ragionamento è esatto: se il desiderio è uno, distinguersi diventa questione di vita o di morte. Proviamo infatti a ipotizzare uno scenario in cui la distinzione sia fallita: ci troveremo allora nell’universo grottesco e caricaturale descritto da James Ellroy in Jungletown Jihad,in cui presunte cellule dormienti di al-Qaeda si intrecciano con una rete inestricabile di droga, prostituzione e pornografia, sullo sfondo di una Hollywood sinistrorsa e vecchiotta e delle proteste delle associazioni dei diritti civili per la mano pesante – arabi fatti sfrigolare sulla piastra del kebab,pallottole dum dum, pestaggi e torture con gli elettrodi – che la polizia si ritiene in diritto di usare dopo l’11 settembre e ilPatriot Act.Lo scontro di civiltà è già avvenuto, e quello che ne risulta è una poltiglia indiscernibile, un sublime d’en bas,un eccesso di identico tanto perturbante da divenire quasi rassicurante, come può esserlo un mondo senza tempo e senza sorprese, e dunque senza paura e senza male, se è vero che il male è alternativa, conflitto, cambiamento, possibilità di non essere, proprio ciò di cui in Ellroy non c’è traccia, e senza di cui non resta altro, avrebbe detto Gadda, che «il residuo fecale della storia». Nella giungla metropolitana di Ellroy la Jihad è diventata una sigla tra le tante. I copywriter si scervellano per escogitare messaggi come: «Ciao. Sono Donna Donahue e questo è il mio cane Reggie. Come tutti gli americani, sono allarmata dallo spettro degli attacchi terroristici. Io mi tengo vigile e in forma con una dieta equilibrata e al mio cane dò Barko Bits, cibo per cani americani al 100%. Perché voglio un cane da guardia vigile ventiquattr’ore su ventiquattro». Mentre Bin Laden commissionasnuff-movies con le dive del cinema e i suoi accoliti preferiscono le ragazze della lapdance alle settantadue vergini promesse agli shahid.

Sottomissione

«Io ho un Dio al quale mi rivolgo cinque volte al giorno. Il mio cuore non ha bisogno di altri compagni. L’ossessione del sesso tradisce la vacuità degli infedeli, e il loro terrore», dichiara Ahmad, il diciottenne protagonista del Terrorista di John Updike. E quanto alle settantadue vergini su cui insistono sempre i detrattori dell’Islam, è probabile che siano una metafora per far intravedere alle nostre menti torbide è imperfette almeno un barlume delle gioie ineffabili del paradiso. Cresciuto nel New Jersey, figlio di una madre irlandese e di un egiziano che ha abbandonato la famiglia poco dopo la sua nascita, Ahmad si è convertito all’Islam all’età di undici anni e persegue un ideale di purezza assoluta da offrire a un Dio che sente «più vicino della vena del collo». Non è ottuso né stupido, né indifferente alle dolcezze del creato, anzi: è intelligente, dignitoso, attento, ipersensibile, compassionevole al punto di arrivare a commuoversi per la solitudine di Dio: «Quando penso ad Allah e cerco di immaginarmelo, mi opprime il pensiero di quanto è solo, in tutto quello spazio stellato di cui ha voluto l’esistenza. Nel Qu’ran è chiamato Colui che ama, Colui che di sé vive. Prima pensavo all’amore; adesso mi colpisce l’esistenza solitaria, in tutto quel vuoto».

Una solitudine che capisce molto bene, perché è il riflesso della sua, intelaiata in una costellazione quanto mai terrena di incontri mancati. Con il padre assente. Con la madre ancora giovane e tutta presa dai suoi amori. Con una ragazza che lo attira, lo respinge e lo commuove proprio perché impura. Con l’imam che gli dà lezioni di arabo coranico e lo invischia nella trama di un attentato al Lincoln Tunnel che collega il New Jersey a New York. Con Charlie, suo datore di lavoro, allegro e disincantato militante della Jihad, che sembra abbastanza giovane per fargli da fratello maggiore, e abbastanza onesto da pagargli una prostituta perché perda la sua verginità e sia consapevole di ciò che lascia se accetta di diventare uno shahid.

Solo un velo sottilissimo separa Ahmad dai desideri e dalle delusioni degli altri – sottilissimo e insieme impossibile da attraversare. È il velo che divide tutti da tutti, ciò che separa le coscienze e insieme precariamente le protegge dall’eccesso di prossimità, di promiscuità, di oscenità del mondo. È ciò che resta dell’identità al compimento del moderno. Se ad Ahmad non basta è perché è più vulnerabile degli altri, e non stupisce che lo confonda col suo Dio.

Il che però comporta far coincidere l’identità con la sottomissione, con la permanenza volontaria nello stato di minorità. A questo lo istiga il suo imam, che vuole convincerlo al martirio: «Il nemico ha soltanto il miraggio dell’egoismo, di tanti piccoli ego e interessi, per cui combattere: noi invece abbiamo un’unica, sublime mancanza di ego. Noi ci sottomettiamo a Dio e diventiamo tutt’uno con Lui e gli uni con gli altri». Non deve insistere molto, perché Ahmad è già più avanti di lui «sulla via di Dio». Il suo problema non è quello di scegliere tra due diverse forme di «comunità immaginate», tra la Umma dei fedeli e la corrotta società dei Kafir,ma quello di attingere attraverso la violenza divina a quel resto indicibile che eccede ogni configurazione politica dell’esperienza umana: «Lasciare tutto dietro di sé, quale che sia, dopo, il significato di “sé”. La sua esistenza è prossima all’inimmaginabile. Il mondo, nei suoi particolari in pieno sole, nel minuto scintillante delle sue attività concatenate, sbadiglia tutto intorno a lui, un vaso luccicante pieno di vuoto in fermento, mentre gli pesa dentro una certezza nera e madida. Non riesce a dimenticare la trasformazione che lo aspetta, per così dire, dietro l’otturatore che si chiude, anche se i suoi sensi ricevono ancora il loro familiare bombardamento di immagini e suoni, odori e gusti. La gloria del Paradiso filtra a rovescio nella sua vita quotidiana. Lì tutto sembrerà grande».

Per questo continua a perseguire il suo progetto anche quando si rende conto di essere manipolato dal suo imam, che non si perita di fare appello al suo americanissimo spirito di competizione: «Non sei costretto a farlo […] se ti trema il cuore. Ci sono molti altri ragazzi impazienti di avere un nome glorioso e la garanzia della beatitudine eterna, Per la jihad ne abbiamo quanti ne vogliamo, di volontari, anche in questa patria della malvagità e dell’irreligiosità». Per quanto turbato da quella «presunta folla di altri ragazzi pronti a rubargli la gloria», non è questa la ragione che lo spinge ad accettare, tanto più che la strumentalità della manovra gli è perfettamente chiara: «Il ragazzo sa di essere manipolato e tuttavia acconsente alla manipolazione, dal momento che questa fa appello alle sue potenzialità sacre. “No, la missione è mia, anche se mi sento piccolo come un verme”». Né sembra scuoterlo, quando già è in viaggio sul suo camion imbottito di esplosivo per andare a portare il fuoco di Dio nel ventre della città infedele, la rivelazione che Charlie era in realtà un agente della ciaincaricato di incastrarlo. Non era stato proprio Charlie a dirgli che «siamo tutti strumenti»? Anche lui è stato uno strumento di Dio. Ancora pochi minuti e Ahmad sarà tutt’uno con Allah, il Clemente, il Misericordioso, il Grande Altro, il sublime cliché.

Ma non è così che finisce. Forse perché sul camion è salito inaspettatamente Jack Levy, il suo ex insegnante alla high schoolche ha avuto una relazione con sua madre, che vuole salvarlo ma accetta anche il rischio di morire con lui, e magari se lo augura perfino perché non è felice e dispera di esserlo mai più; forse perché dalla station wagon incolonnata davanti al suo camion gli sorridono due bambini di colore; fatto sta che il punto in cui doveva farsi esplodere è oramai superato, e dalla fine del tunnel si intravedono le luci di New York: «benvenuto nella Grande Mela», nel cuore del mondo sensibile con le sue contraddizioni senza esito.

Eppure non è un lieto fine, questo suo ritrovarsi sbalzato dall’universale divino all’universalmente umano. Non è la fine del Terrore ma la sua condizione aurorale, la nuda vita, la vita che chiunque può uccidere, la vittima indifferenziata sottratta perfino al sacrificio, la folla solitaria di individui «tutti ridotti alle dimensioni di insetti dagli edifici imponenti che li circondano», ciascuno «impalato vivo sul paletto della coscienza», vincolato soltanto alla propria «autoconservazione». Perché, come ha scritto Hannah Arendt, «l’efficacia del Terrore dipende quasi completamente dal grado di atomizzazione sociale», dal divenire impossibile di ogni opposizione organizzata, dalla spoliticizzazione che riduce il cittadino alla sua nuda sostanza di uomo, ai suoi «diritti umani» che emergono solo astrattamente nel momento in cui sono negati i suoi diritti politici, mentre è vero che quelli procedono da questi, e non è vero il contrario.

Terrore è quando il cittadino è degradato a mero uomo. Terrore è la totale espropriazione di quella sfera pubblica in cui, come ha scritto Slavoj Žižek, «ciascuno opera come agente simbolico che non può venir ridotto a individuo privato, a un fascio di attributi, desideri, traumi e idiosincrasie personali». Terrore è quando la prossimità diventa oscena e l’identità non può pensarsi in comune se non ricorrendo alle pratiche di separazione che sono proprie dell’agire sacro. Terrore è la sconfitta della storia, è la retroversione all’origine, è lo schiacciamento della specie umana sulla sua necessità di proteggere la vita attraverso la paura numinosa, il ricondurre la sua destinazione alla mera omeostasi autoriproduttiva.

«Trasmettere la religione è trasmettere timore», ha scritto Walter Burkert in La creazione del sacro:puluhtu,paura, è il termine accadico più frequentemente associato al pensiero degli dèi.» Il timor di Dio è l’inizio della sapienza», si legge nel libro deiProverbi. «Il timore supremo è il timore di dio», proclama Eschilo nelle Supplici.«Primus in orbe deos fecit timor», primo il timore produsse nel mondo gli dèi, scrive Stazio.Choc and awe,colpisci e terrorizza, hanno chiamato glispin doctor dell’amministrazione americana la campagna di «guerra al Terrore» iniziata con i bombardamenti sull’Afghanistan. E a chi obbiettava che allora come distinguere Terrore da Terrore, hanno fatto rispondere da compiacenti ideologi che awe non doveva essere tradotto con «terrorizza», ma piuttosto con «incuti un timore reverenziale», suscita un sentimento misto di reverenza, rispetto, timore e meraviglia di fronte all’autorità, uno sbigottimento d’impotenza di fronte al sublime e all’incomprensibilmente potente, quale è quello richiesto dal Dio dell’Antico Testamento – e dal Grande Inquisitore di Dostoevskij, che rimprovera Cristo di voler liberare l’umanità dalla paura. Atterra e suscita, percuoti e rendi attonito, per parafrasare Manzoni, che sapeva il fatto suo. Suggerisci inadeguatezza, solitudine, silenzio, e non dimenticare la compassione per le vittime, che ti dà il diritto di interferire in nome della loro perdita di diritto e di ricevere il plauso dello spettatore distratto.

Vittime

A questo cooperano terroristi e controterroristi, comunitaristi paranoici e sostenitori dell’individualismo liberale secondo cui, come diceva Margaret Thatcher, «non esiste qualcosa come la società» che non sia la mera negoziazione di una somma di interessi particolari. Convinti tutti, alla stessa stregua, che l’identità consista nella semplice presenza, nella mera prossimità a sé stessi in cui si accomunano le modalità d’esistenza del signore e della vittima. Perché di quella presenza, di quella pienezza, di quell’essere assoluto che non deve rispondere a nessuno in quanto si pone come puro in sé, solo la forma cava della vittima offre un’immagine verosimile. «Il principio della tutela delle vittime», ha scritto René Girard, «è diventato il nuovo assoluto.Nessuno lo mette in dubbio, non serve nemmeno nominarlo, lo diamo per scontato.»

Ma nulla di più pericoloso, al di là delle apparenze, di questo «umanesimo animale», come lo chiamerebbe Alain Badiou; di questa cattiva universalità in cui il soggetto vittimizzato è insieme, come ha scritto Luc Boltanski, «iperindividualizzato, attraverso l’accumulazione di dettagli di sofferenza, e dequalificato; è lui, ma potrebbe essere chiunque altro», e dunque tutti vi si possono riconoscere, il diseredato come il potente, e non solo il potente caduto al quale Leonardo Sciascia accorda la sua pietà nella persona di Aldo Moro nella prigione delle br, abbandonato dal suo partito, già morto nel cuore degli amici, creatura senza più qualità che non sia la «vita nuda» come Vitangelo Moscarda alla fine di Uno nessuno e centomila: «Da “personaggio” a “uomo solo” a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza». Nulla di più pericoloso di una condizione in cui, come ha scritto Richard Sennett, l’idea stessa di diritto, il «quello che mi spetta», si può esprimere solo nella forma di «quello che mi è stato negato». «Io sono un uomo che ha molto sofferto, e dunque ho il diritto di parlare», diceva Artaud. Il dovere dell’ascolto, ovviamente, sta tutto dalla parte dell’altro.

Con la crisi delle grandi teorie dell’emancipazione, l’immaginario della vittima ha preso a poco a poco il posto di un vero e proprio mito di fondazione del soggetto, capace di rispondere non tanto a un bisogno di avere (risarcimento, diritto, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. La macchina mitologica dell’ideologia vittimaria è il più potente generatore di identità della coscienza postmoderna. Non più appannaggio delle sole minoranze, il discorso della vittima è diventato lo strumento identitario principe di quella che Arjun Appadurai ha chiamato «la violenza della maggioranza», trasmigrando come un identico coagulo epistemico dalle giuste lotte contro la discriminazione agli orrori della pulizia etnica. Io sono in quanto vittima di qualcuno, e voglio restare tale anche dopo che lo avrò distrutto, perché altrimenti cos’altro potrei essere?

Non è da questo che procede e si legittima il terrorismo? Non è per questo che siamo tutti chiamati a raccolta nella guerra contro il terrorismo? Non è a questo che serve il terrorismo? Polemizzando con un gruppo di ex brigatisti detenuti che si accusavano non solo delle loro colpe politiche e morali, ma del fatto stesso di aver abbandonato la sfera della pura interiorità morale per accedere alla regione intrinsecamente fallace del politico, Franco Fortini replicava: «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza, non riesco davvero a immaginarmelo. Cos’è un uomo ridotto alla mera dimensione dell’interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi cristiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano. Deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?». Che come pietra di paragone dell’agire umano si scelgano la pura interiorità o la nuda vita da una parte, il terrorista dall’altra, è il risultato ultimo della morale e della metafisica segretamente privativa che soggiace all’individualismo proprietario. È il segno incancellabile del suo difetto di fondazione: dove il soggetto manca, la canaglia e la vittima puntellano, offrendo alla sua incompiutezza un supplemento d’origine che lo metta al riparo dalla sua responsabilità verso il futuro.

Nessuna profanazione della macchina mitologica del terrorismo, dunque, che non si accompagni a una critica della vittima. Un lavoro, quest’ultimo, ancora tutto da fare. Sarà per la prossima volta.