Vittorio Emanuele Parsi qui tocca un punto fondamentale. Lo dice quasi per caso, quasi non ci si fa caso. Riguarda la dinamica tra ‘essere’ e ‘avere’, ridotta, di solito, alla solita solfa che riguarda l’ego idolatrato. Ribatto le parole di Parsi: “Il problema della politica oggi non sta negli annunci, ma nel fatto che nessuno trova più collocazioni e connotazioni ideologiche così forti e persistenti da comporne l’identità, così da fornire attraverso l’essere una compensazione all’inevitabile frustrazioni dell’avere”. Eccolo qui, il punto centrale della post-democrazia.
Fieri di avere fatto un falò delle ideologie, ora non abbiamo più idee né identità. L’identità – la tutela dei propri confini, ad esempio – è ridotta al denaro, allo stipendio, al lavoro ‘che gli altri ci vengono a rubare’. Non c’è altro oltre l’avere, perché l’essere – l’essenza di un popolo, di uno Stato, la ragione che regge l’Occidente rispetto al resto – è tramontato, è smorto.
La dico in modo romantico: quando l’essere è forte – so chi sono e a quale terra appartengo e quale identità contraddistingue la mia terra, l’Italia – dell’avere posso fare a meno, ogni sacrificio è lecito, perché rende sacro, appunto, l’essere. Ma se l’essere scema, rimane la pancia, la fame, vince chi è famelico. Torno a noi. Parsi è uno dei più lucidi osservatori di ciò che accade nel tempo presente, da tempo: leggete quanto scrive riguardo al ‘sovranismo’, di cui è moda blaterare.