Si potrebbe definire il regno di Mark Zuckerberg. Secondo gli ultimi dati disponibili (ottobre 2018), gli utenti attivi su Facebook sono 2,23 miliardi (con un aumento dell’11% rispetto a un anno fa). Di questi, circa 1,47 miliardi di persone si connettono giornalmente. Specialmente attraverso l’applicazione mobile che, negli Usa, copre circa il 77% del traffico social degli utenti. Il tutto senza considerare gli account Instagram e le persone che utilizzano Whatsapp o Messenger per comunicare quotidianamente con i propri contatti. Insomma, stiamo parlando di un vero e proprio colosso social (e commerciale, visto che viaggia verso i 14 miliardi di dollari di ricavi nel Q4 2018). Cifre che, insieme alla “facilità” con cui la piattaforma di Zuckerberg riesce a uscire pulita dagli scandali sulla sicurezza, ha fatto sorgere un interrogativo: siamo di fronte a un monopolio digitale?
Difficile dare una risposta netta. Soprattutto se anche chi dovrebbe controllare la formazione di trust e monopoli non ha gli strumenti adeguati per fronteggiare la concentrazione di potere delle aziende del tech. È il caso della Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia a stelle e strisce che nel 2012 ha dato parere favorevole all’acquisto di Instagram da parte di Facebook. Il motivo? Non c’era una aumento dei prezzi per i consumatori. Questo, infatti, era ed è ancora il criterio principale con cui i regolatori del mercato valutano eventuali concentrazioni. Lo stesso principio che, alla fine del 1800, ha portato alla destrutturazione della Standard Oil. Inutile dire che un metro di valutazione simile stona rispetto al “mercato dell’attenzione” (degli utenti), in cui l’unità di misura della ricchezza è lo user time e da cui l’azienda di Menlo Park trae i propri profitti in termini pubblicitari. Il tutto, per lo più, senza curarsi molto di eventuali problemi di privacy.
Ma quali sono le alternative? Poche. Se Google ha da poco chiuso Google+, Twitter non se la passa meglio e Snapchat fatica a reinventarsi dopo lo “scippo” del modello stories
Da Cambridge Analytica al data breach del 12 ottobre scorso che ha esposto 50 milioni di profili a un accesso illegale, Facebook sembra sempre riuscire a farla franca con il minimo sforzo: una multa (anche salata), le scuse del capo, la promessa di fare di più sul lato della privacy. La stessa che Facebook aveva messo nero su bianco attraverso un accordo con la FTC in cui si impegnava a mettere al sicuro i dati dei propri utenti e che ora viene citato come casus belli per un possibile campagna antitrust. Detto altrimenti, quello che allora rappresentava un passo preliminare alle successive acquisizioni di Instagram e Whatsapp al fine di mettere al sicuro gli utenti di queste piattaforme che, nel giro di pochi anni, sarebbero rientrati tutti sotto l’ombrello social di Zuckerberg, ora sembra l’argomentazione più forte per sfuggire alla gabbia d’acciaio digitale. O almeno, così è stato letto l’abbandono di Kevin Systrom e Mike Krieger, fondatori di Instagram avvenuto a fine settembre. Le motivazioni ufficiali parlano della ricerca di nuovi orizzonti dell’innovazione, ma nei corridoi della Silicon Valley si vocifera sempre più insistentemente che la causa principale fosse la pressione di Facebook affinché il social delle foto si sviluppasse sempre più come il proprio braccio armato (di scatti).
Ma quali sono le alternative? Poche. Se Google ha da poco chiuso Google+, Twitter non se la passa meglio e Snapchat fatica a reinventarsi dopo lo “scippo” del modello stories. Non solo, ma secondo alcuni analisti, una decisione a favore della decostruzione del monopolio creato da Facebook potrebbe avere effetti negativi: «La regolamentazione potrebbe rendere Facebook ancor più potente. L’effetto network, che rende Facebook più appetibile agli utenti nello stesso momento in cui allargai suoi servizi, spinge le aziende di social media verso un monopolio. Per converso, il costo di un’azione legale, come il GDPR, che rappresenterebbe una rovina per le piccole start-up, potrebbe bloccare la sfera di potere dei colossi ancor di più», ha scritto Jacob Weisberg, giornalista del NYTimes.