Dovrebbe essere il tema ineluttabile dell’arte, Dio – ora, se va bene, visto che dissacrare è una moda démodé, non lo si considera, che bolgia di sconsiderati. In effetti, perfino la Chiesa, che troppo spesso scodinzola verso il mondo senza aderire all’altro mondo, s’è scordata che Dio, anzi tutto, è un artista, e l’artista è il suo profeta: gli edifici di culto sono anonimi polipi di cemento, la liturgia è disintegrata dal ronzio delle schitarrate e da cori sghembamente pop, da gambizzare. Per fortuna, dal deserto odierno, specie di profeta del vizio e del sacro – che sono lo stesso – sorta di Damasceno contro gli iconoclasti e gli iconolatri, si erge Camillo Langone, “cattolico praticante”, come si definisce, San Camillo dei poeti – che celebra quando può – e dei pittori – eccellente il progetto sugli Eccellenti Pittori, che fu libro, per Marsilio, nel 2013, ed è sito specifico, “Il diario della pittura italiana vivente”. Langone, a cavallo delle feste, si è inventato la mostra concettualmente – anche se i ‘concettuali’ gli fanno orrore, “perché Pollock consumava tutta quella vernice? Che problemi aveva? Se c’è qualcosa di comprensibile è la pittura italiana di questi ultimi anni. Perché è quasi tutta figurativa”, scrive – più interessante del corteo musivo italiano, che spero, oltre all’effetto virtuoso – che ha già – abbia un effetto virale e salutare in altre lande italiche. Insomma, presso il Palazzo dei Capitani del Popolo ad Ascoli Piceno, fino al 13 gennaio 2019, San Camillo si è inventato, sotto il titolo L’arte che protegge, un percorso che sancisce il legame rinnovato tra “Pittura contemporanea e Sacro” (catalogo Silvana Editoriale). Solleticati – e sollevati – da Davide Frisoni e Omar Galliani, Tommaso Ottieri e Luca Pignatelli, Enrico Robusti e Nicola Samorì, il messaggio subliminale è sublime: se non c’è più la Chiesa a dettare agli artisti il soggetto divino, il divino invade, in forma di ispirazione soggettiva e suggestiva, l’artista. Il tema spalancato da Langone è una stimmate: neppure la declamata morte di Dio ha ucciso Dio dal divino delirio dell’arte. Resta, a Langone, l’arte di radunare la legione di artisti, al di là della mostra, per dar vita a una nuova ‘fabbrica di San Pietro’ che rinnovi il volto dell’arte, dell’uomo, di Dio. Ce la farà.
Da tempo Dio e l’arte non dialogano più. Dove sta il problema? Nella Chiesa che non ha più gusto o negli artisti che sono disgustati dal divino?
È una storia talmente vecchia, già vecchia quando Paolo VI disse che bisognava ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Era il 1964 e, nonostante il sincero impegno di quel Papa, la relazione non è stata riallacciata. Escluderei problemi di gusto. I problemi sono di natura teologica da una parte, di natura estetica dall’altra: ostacoli alti. Ma la posta in gioco è ancora più alta, è la fede nell’Incarnazione, e dunque bisogna continuare a impegnarsi. La mia mostra dimostra, scusa il gioco di parole, che nulla è perduto: nonostante il clima profano gli artisti sono attratti dal sacro e spesso dipingono Santi, Madonne, Gesù Crocifissi senza bisogno di sollecitazioni ecclesiastiche.
Tu parli di ‘arte sacra’, ma ‘arte sacra’ è quella – chessò, Giotto, Mantegna, Bellini – di fronte a cui ti inginocchi e preghi. Intendo: non basta dipingere un Cristo perché sia ‘sacro’, è ‘arte’ e stop.
No, ormai nell’Europa occidentale anche Giotto, Mantegna e Bellini sono soltanto arte. Solo nell’Europa orientale, ossia ortodossa, può succedere che i visitatori di un museo si inginocchino davanti a un’icona. Ad esempio accade in museo di Mosca davanti all’icona della Trinità di Andrej Rublev. Difficile non pensare che questi diversi comportamenti rappresentino diversi livelli di apostasia delle rispettive società: da noi elevatissimo, chiaro.
In effetti, il titolo della rassegna è “L’arte che protegge”. Spiegami il titolo e spiegami la sacralità dell’arte che hai messo in mostra.