“Dio è un discorso politico”: l’Isis raccontato nelle parole di Gabriele Del Grande

Ha cominciato contando i morti nel Mediterraneo ed è finito detenuto in Turchia per 14 giorni. Del Grande, giornalista e autore del manuale fondamentale sullo Stato Islamico, racconta che cos’è il jihad. E lo fa attraverso le sue parole più essenziali

Vincenzo PINTO / AFP

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Il titolo del libro ha il sapore di un fiore esotico, ma è a un dettaglio che assicuro la sua personalità. Come faccio sempre, chiedo una lista di “autori di riferimento”, cioè di denunciare l’identità letteraria. Mi fa la lista. Da Bohumil Hrabal a Beppe Fenoglio, da Oriana Fallaci a Josè Saramago e Ennio Flaiano. Seguono svariati libri di storia, in inglese. Alcuni sono in arabo. “Poi ci sono centinaia di altri libri, soprattutto fra i classici, che non ho più con me perché ogni volta che faccio un trasloco, accade più o meno ogni due anni da quando me ne sono andato di casa ai diciotto, regalo tutto a una biblioteca della città che abbandono per una strana pulsione a disfarmi di pesi ed ingombri”. Lo capisco qui. La necessità di traslocare, di lasciare, di azzerare tutto. Un falò di sé per rendere i fatti inderogabili. La letteratura intesa come vita – sorriso, occhi e sangue – e non come alambicco accademico, sfogo durante fumose discussioni.

Gabriele Del Grande ha cominciato contando i morti nel Mediterraneo, nel 2006, con il progetto “Fortress Europe” – il progetto è fermo al 2016, con didascalia ferina, la promessa di censire “la storia che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d’Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città”. Poi ha fatto un film, Io sto con la sposa. Poi ha scritto un libro dal titolo che ha il sapore di un fiore esotico, Dawla (Mondadori, 2018), ma è un veleno, è un saggio a ritmo romanzesco, che con ferocia narrativa racconta “La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori”. Quando, aprile 2017, Del Grande viene arrestato in Turchia, “per quattordici giorni, undici dei quali in totale isolamento”, sta lavorando a Dawla, il primo organico tentativo di raccontare lo Stato islamico (“Dawla” è “Stato” per gli affiliati alla guerra santa, l’estrema) attraverso la testimonianza di tre disertori. “Col senno di poi posso dire che quelle due settimane dietro le sbarre hanno aiutato la mia ricerca”, scrive Del Grande nell’introduzione, e conclude, “Per incontrare i carnefici, ci si sporca le mani. Ma l’unico modo che ha uno scrittore per raccontare una storia, a meno di non volersela inventare, è quello di ascoltarla a sua volta dalla viva voce dei suoi protagonisti”.

Il libro è impressionante, vi porta nell’harem delle “vedove dei martiri”, donne bramate, protette da Dawla, date in moglie, dopo la vedovanza, ad altri guerrieri, in una filiera del fanatismo, servi al loro erotismo ideologico, pur di guadagnare un posto di primo piano in questo ma soprattutto nei mondi a venire. E poi vi porta a fare una gita al Punto 71, “il nome in codice di una delle prigioni segrete del Dawla in Siria, a Shuhayal”, dove imperversava – prima di essere ucciso durante un bombardamento nel settembre del 2017 – Christian, “un tedesco convertito… l’unico agente del Punto 71 a girare senza la maschera sulla faccia… uomo alto e magro, sulla trentina… volto spigoloso e labbra sottili… ogni volta che c’era da sgozzare qualcuno, soprattutto se era europeo, Christian insisteva per essere lui a tagliargli la gola in piazza”. Ho inseguito a lungo Del Grande. Per raccontare lo Stato islamico ha prediletto la narrazione potente, l’audacia dell’affresco, più che la genia del saggio. Ha scritto l’immane – il libro supera le 600 pagine – Guerra e pace dello Stato islamico, l’epopea infernale di quel cuore martoriato e folle della Storia, tra Siria, Iraq, Turchia, che ha morso – e morde – la placida, ipocrita Europa. Non si sradica l’idea con le bombe. Quando ho letto il libro mi si è chiarificata una cosa, lampeggiante. Non serve fare una intervista canonica a Del Grande. Il libro mette in discussione tutto il nostro vocabolario. Parole come bene e male, tradimento e pietà, guerra e prigionia – che per i militanti è una prova religiosa utile a santificare la loro missione, cauterizzando ogni tentennamento – paura e potere, hanno un significato diverso in quel contesto, spesso opposto. Per questo, ho chiesto a Del Grande di riscrivere il vocabolario, di dettare l’abbecedario di quel luogo di inferno e di gloria.

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