Con Serotonina di Michel Houellebecq il fenomeno è conclamato. Lo scrittore che discende dalla grande tradizione dell’amarezza francese (miliardi antecedenti possibili, da Villon a Drieu La Rochelle) si colloca in pianta stabile nella posizione di Rocco Siffredi del bestellerismo. Vale a dire nella posizione di simbolo di inaccettabilità accettato da tutti, di vena oscura ma non troppo della cultura pop. Rocco, il grande Rocco, non fa niente per nascondere il suo provinciale amore per la figa e il suo maschilismo demodè. Rocco che interpellato su questo o quel ministro donna parla di come se la scoperebbe, e tutti applaudono. Rocco che ha inventato le scene in cui penetra la partner tenendole la testa nel cesso la cosa non fa sensazione. Rocco che ha licenza, poetica e politica, di parlare di femmine come si parlerebbe di chianine e tutti lo guardano come un grosso filosofo.
Rocco può. E anche Michel può. Sì, ogni tanto c’è un po’ di polemica intorno a qualche suo personaggio politicamente scorretto, ma più in passato che ora. Ora è un fenomeno accettato, a destra, a sinistra, sia da parte d’establishment che da quella sovranista. È appunto il Rocco Siffredi della letteratura mondiale. Sarà che con Sottomissione si è conquistato l’aura di Profeta post fallaciano di una supposta invasione islamica (che dei fondamentalisti islamici si travestano da pacati democratici per conquistarci è un qualcosa che storicamente non si è mai verificato, né si capisce quali siano i sintomi del fatto che stia avvenendo, ma vabbè). Sarà che alla fine i suoi libri sono apparentemente feroci, e in pratica rientrano nella tradizione amletica del protagonista morto di inazione.
Ora è un fenomeno accettato, a destra, a sinistra, sia da parte d’establishment che da quella sovranista. È appunto il Rocco Siffredi della letteratura mondiale
Comunque in Serotonina siamo alle solite houellebecqate. Un quarantenne senza problemi economici, ma con tanti marchi tra cui scegliere, canali satellitari da guardare, spa da frequentare. Il fallimento che incombe. La speranza che finisce. Il desiderio che non arriva e la fatale latitanza del cazzo, il fondo cinico delle mutande come tramonto d’Occidente. Ma guardiamo il protagonista, Florent Claude Labrouste. Un personaggio che ha tutto per non piacere in termini di correttezza politica. È un difensore della autonomie locali e, da agronomo, perfino delle quote latte, come un perfetto leghista. È uno scettico nei riguardi dell’Europa, come qualsiasi reazionario. È un misoneista fatto e finito. Ed è un sessista genetico, strutturale, senza possibilità di redenzione. Per lui le “giovani donne” sono “giovani fiche umide”. In questo sembra Checco Zalone di “Viva la sineddoche”, ma Zalone è un comico, Houellebecq un supposto profeta.
Florent di ogni donna con cui ha avuto una relazione tiene a precisare le skills sessuali, tipo cavallo da salto o cane da trifola. Tranne di una, Camille, che svolge la funzione altrettanto tipica per il maschio tradizionale di Beatrice. Il tutto in un romanzo stanco come il protagonista, e piuttosto sciatto. Eppure ad Houellebecq arridono classifica e tweet entusiasti. Nemmeno fa più scalpore che abbia successo. Pochi notano che l’autore è rimasto fermo ai suoi romanzi dei decenni passati. Ma magari è quello il motivo del suo sdoganamento finale sulle banchine del pop planetario, il fatto che oltre che da depressivo è diventato noioso. Anche gli scorretti invecchiano.