Il colossoHuawei: storia dell’impero che fa tremare la politica mondiale

Dall’esercito cinese al più grande colosso mondiale delle telecomunicazioni: storia di Ren Zhengfen e della sua azienda, sempre più al centro della “nuova guerra fredda” tra Cina e Usa, combattuta a colpi di commercio, telecomunicazioni e spionaggio

La Huawei può vantare tanti primati. È la più grande azienda privata cinese, prima al mondo per ricerca scientifica e impianti di telecomunicazioni. L’anno scorso ha superato Apple, ma quest’anno ha infranto ogni record, divenendo l’azienda più politicamente contesa dalla guerra fredda.
Questa è la storia di come un ex-ricercatore 44enne dell’esercito cinese, a pochi anni dalla Rivoluzione Culturale, abbia fondato il più grande colosso delle telecomunicazioni con soli tremila dollari, realizzando un’impresa commerciale senza eguali in Cina. Una vicenda che ci riguarda da vicino e che assume tratti degni di un thriller hollywoodiano, capace di intrecciare comunismo e capitalismo di stato; pena capitale e rivendicazioni storiche; guerre commerciali e spionaggio internazionale; cultura del lupo e futuro delle telecomunicazioni in 5G.

Dal Guizhou all’Everest: La rivoluzione post-maoista di Huawei
«Avevamo il sale per cucinare, quindi eravamo considerati ricchi». La vita di Ren Zhengfen, fondatore e CEO di Huawei, è un affresco della Cina moderna. Nato durante la guerra nel Guizhou -tra le più povere province cinesi- e battezzato nel Guomintang, il Partito Nazionalista sconfitto dai comunisti di Mao.
Per decenni, quest’eredità gli impedì di ricoprire un ruolo politico nel nuovo regime, nonostante dagli anni ’60 fosse ricercatore per l’Esercito Popolare di Liberazione. Solo dopo che fondò l’azienda nel 1987 a Shenzhen, e in seguito alle riforme di apertura, divenne membro del Partito.
Agli inizi, Huawei forniva commutatori telefonici. I suoi operai attraversavano il paese su piccole utilitarie equipaggiate con materassi per riposare durante i lunghi turni. Diversi testi riportano testimonianze di quanto sia stato stremante per i dipendenti consolidare l’azienda globalmente: sfidando il gelo per assicurare il servizio agli scalatori dell’Everest, rischiando la vita in zone di guerra o durante l’attacco terroristico di Bombay e il terremoto in Algeria.
Oggi, nella povera Guizhou ci investono Apple e Tencent, mentre Huawei è leader mondiale, penetrando in oltre 170 paesi, fatturando oltre 100 miliardi nell’ultimo anno (+40%), e registrando più di 74 mila brevetti.

“Grazie e nonostante la Cina”: Huawei tra Capitalismo di Stato e Cultura del Lupo
Diverse teorie provano a spiegare il successo di un privato come Ren in un regime di capitalismo di stato. C’è chi lo considera un vantaggio, in quanto la Cina ha sempre aiutato i propri “campioni nazionali” a conquistare capitali, mercati e risorse. C’è chi invece lo ritiene uno svantaggio, in quanto l’economia pianificata è stata spesso responsabile di cattivi investimenti; è meno innovativa e più corrotta; drena ingenti risorse ai privati, li censura e controlla internamente.

Secondo Nicola Casarini – responsabile Asia per l’Istituto Affari Internazionali (IAI) intervistato per Linkiesta.it – «Huawei è cresciuta grazie e nonostante fosse cinese. Da una parte sicuramente pesa il ruolo del fondatore nel Partito, ma dall’altra, l’economia pianificata è spesso un freno all’innovazione. Non a caso, Huawei si è affermata prima all’estero e poi in patria. Vince appalti ovunque ma in Cina viene dopo le aziende statali. Per questo i cinesi la ammirano, perché è riuscita a distinguersi nel mondo, e in un certo senso, a redimere il senso di umiliazione storica provocato dagli occidentali».

Huawei non è dunque figlia del Partito e deve il suo successo a quella che viene definita “cultura del lupo”. Un atteggiamento che, da un lato, gli ha permesso di espandersi stremando la concorrenza e sfruttando la frammentazione burocratica internazionale, dall’altro ha creato forti ripercussioni interne ed esterne. Nelle parole di Guo Ping, ex-AD dell’azienda, «La crescita rapida era la priorità. Ci ha aiutato a maturare velocemente, ma ci ha anche reso più negligenti».

Nel 2002, Huawei risulta tra i fornitori di Saddam. Nel 2003 e 2014 viene denunciata da Cisco e T-Mobile per furto di segreti commerciali, mentre nel 2012 è coinvolta in scandali di corruzione governativa in Ghana e in Algeria.

L’accusa americana: tra spionaggio internazionale e frode bancaria
La cultura del lupo si rivela essere un’arma a doppio taglio. Nel 2009, Huawei divenne “il principale fornitore di servizi di telecomunicazione in Iran”. Ciò fu possibile fino al 2011, quando in seguito alle sanzioni Usa e Onu, affermò di non voler stipulare nuovi contratti nel paese.
Tuttavia, la sua rapida ascesa in zone “sensibili” agli Usa e i presunti legami del fondatore Ren con l’esercito e il partito, portarono l’amministrazione Obama ad indagare sul suo ruolo nello spionaggio civile, scientifico e militare di Pechino.
Nel 2013, un report di Reuters accusò l’azienda di proseguire i suoi affari illecitamente in Iran, attraverso una succursale di nome Skycom. La HSBC, la banca cinese che ne processava le transizioni, chiese chiarimenti e Huawei mandò Meng Wanzhou, dirigente e primogenita di Ren, per rassicurare la banca.
Secondo l’accusa però, nel 2014, HSBC processò circa 100 milioni di dollari con Skycom, fattore che nel 2017, portò la banca ad accusare Huawei di averle mentito. Fu così che la scorsa estate un’indagine sulla sicurezza nazionale divenne un caso di frode bancaria, scatenando un incidente internazionale. Il 1 dicembre 2018, mentre al G20 Trump e Xisiglavano una tregua sulla guerra commerciale, Meng Wenzhou veniva arrestata in Canada dagli americani.

«L’unica differenza tra Cina e Giappone, è che il Giappone, così come l’Europa, per la sicurezza dipende dagli Usa, mentre la Cina no, quindi non accetta ogni pretesa. Gli Usa non sono spinti dal commercio, semplicemente, vogliono preservare il proprio primato. Mentre la Cina vuole diventare leader tecnologico, ristabilire un ordine multipolare e sfidare il dollaro».


Nicola Casarini, Responsabile Asia, Istituto Affari Internazionali

Un mondo multipolare: La difesa di Huawei, la reazione cinese e gli insegnamenti giapponesi
La reazione cinese non si fa attendere. Pechino arresta 13 canadesi e ripartono i negoziati sui dazi. Il clima sembra rasserenarsi con il rilascio di Meng su cauzione ($7,5milioni), ma nel giro di poche ore la Polonia tende la mano a Trump e arresta un dipendente Huawei accusato di spionaggio. L’azienda lo licenzia, i social cinesi vomitano nazionalismo, i media di partito mettono in guardia la Polonia, mentre il governo lancia un chiaro messaggio, condannando a morte un canadese arrestato nel 2014 per spaccio.
Ren Zhengfen torna pubblicamente a ribadire come Huawei non sia uno strumento del Partito, ne i suoi piani rispecchino la Nuova via Della Seta o il Made in China 2025, ma non basta, le indagini proseguono e l’azienda viene accusata di furto di segreti commerciali alla T-Mobile.
Pechino è convinta che Trump voglia ottenere delle concessioni commerciali per sabotare la Cina sulla concorrenza tecnologica, proprio come accadde durante la guerra fredda con i giapponesi, che accettarono di deprezzare il dollaro rispetto allo yen e di porre limiti di sviluppo alle proprie industrie.
«L’unica differenza tra Cina e Giappone – spiega Nicola Casarini dell’IAI – è che il Giappone, così come l’Europa, per la sicurezza dipende dagli Usa, mentre la Cina no, quindi non accetta ogni pretesa. Gli Usa non sono spinti dal commercio, semplicemente, vogliono preservare il proprio primato. Mentre la Cina vuole diventare leader tecnologico, ristabilire un ordine multipolare e sfidare il dollaro».
Qui si radica il secondo movente del dissenso cinese. Gli Usa pretendono che le proprie sanzioni abbiano valore extraterritoriale. Questo perché gli scambi internazionali si fondano sul dollaro. Se Huawei non fosse stata costretta a effettuare le transazioni negli Usa, non avrebbe infranto la legge americana nel commerciare con l’Iran.
Inoltre, l’arresto di Meng rivela una dinamica inquietante, definita dagli studiosi Farrel e Newman come “interdipendenza armata”. Ad oggi, numerose norme internazionali potrebbero incriminare dirigenti di multinazionali. Pensate a Facebook e Cambridge Analytica in Europa. La stessa Cina potrebbe incriminare dirigenti americani a Shanghai. La verità è che gli Usa arrestano personalità importanti di tutti i paesi da decenni, mentre nessun altro paese osa farlo con loro.

Guerra fredda tech: Europa e Italia al centro dello scontro
​Trump sta forzando l’Europa a schierarsi nella guerra commerciale, sfruttando la futura costruzione delle reti 5G e comunicando che, con Huawei, si risparmierà non solo in denaro, ma anche in sicurezza. Australia e Nuova Zelanda hanno già escluso l’azienda da futuri appalti per i nuovi network, e anche la Germania pare orientata in tale direzione.
La Cina ha intimato ai paesi Ue di non seguire ciecamente l’alleato americano, pena enormi ripercussioni economiche. L’arresto ha infatti già scombussolato i mercati europei, portando ad un crollo tra il 3 e 4% dei principali indici, compresa Piazza Affari.
La Huawei è arrivata in Italia nel 2004 e da allora è presente in 10 città con 750 professionisti e 4 centri di ricerca. Insieme a Regno Unito e Germania, l’Italia è tra gli investimenti Ue più importanti, in crescita del 40% nell’ultimo anno.*

Casarini pensa che l’Europa rappresenti «il premio cinese sulla Nuova Via della Seta. Mantenere un’Ue neutrale è già una mezza vittoria per Pechino. I paesi nordici saranno più propensi a seguire Trump. Il problema nasce con i paesi dell’est o con Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. L’Italia ha tra i governi più filo-trumpiani in Ue, ma mostra anche grande apertura alla Cina. La sua posizione dipenderà da tre rapporti: quello tra Lega-5stelle e quelli con l’Europa e con gli Usa. Di Maio ha già ricevuto pressioni per non siglare il Memorandum sulla Via della Seta, ma l’esito non è scontato. Trump ha già perso la Corea del Sud, che per la prima volta ha un rapporto non mediato con il Nord. Ha quindi bisogno di alleati e di recente ha aperto a concessioni italiane sull’Iran. Nulla esclude procedimenti simili sulla Cina».

Il pericolo maggiore di tutta la vicenda consiste negli impatti indiretti sull’economia mondiale e sulle relazioni internazionali. Nella storia, ogni qual volta lo status quo è stato conteso da un ordine multipolare, il dilemma della sicurezza ha portato la diplomazia a stressare la coercezione sulla cooperazione, dando adito ai peggiori disastri umanitari. L’economista Frederic Bastiat scriveva: “quando i beni non superano le frontiere, lo fanno gli eserciti”.

* Huawei Technology Italy si è inizialmente mostrata molto disponibile ad essere intervistata, ma alla fine ha preferito non rilasciare commenti.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club