Sorprese in salaAltro che polpettone sovranista: “Il primo re” è l’urlo coraggioso del nuovo cinema italiano

In uscita nelle sale il 31 gennaio, l’ultimo film di Matteo Rovere, già regista di “Veloce come il vento”, evita tutti i rischi del peplum sovranista e ci regala un’opera potente e vivida, tutta recitata in latino, che magnifica l’azione, ma scava anche dentro tutti noi

Nell’anno domini 2018, in epoca di sovranismi, populismi, neofascismi e identitarismi, raccontare al cinema una storia come quella della fondazione di Roma è un’impresa molto azzardata. Il rischio è quello di ritrovarsi di fronte a una pataccata, ridicola come quella infarcita di ideologia che ormai dieci anni fa fece Renzo Martinelli con il suo Barbarossa in salsa leghista, un progetto che, ricordiamolo per chi ha la memoria corta si ciucciò dei soldi pubblici — circa 1 milione e 600mila euro — che vide una comparsata addirittura di Umberto Bossi e di cui sarebbe divertente chiedere conto oggi al nazionalsovranista Salvini.

Certo, un film del genere avrebbe reso felici i cordiali esercenti di Casa Pound, Meloni, Salvini e compagnia bella. Forse sarebbe stato in linea con il gusto di quella parte dell’Italia che oggi gode davanti ai respingimenti in mare, agli sgomberi dei centri di accoglienza per i migranti e alle ridicole copertine di quotidiani in cerca di visibilità, ma sarebbe stata una gran boiata, proprio quello scempio di Barbarossa, una poverata da propaganduccia di regime, o a voler metterla sul ridere, una ridicola farsa che sarebbe stata bene nella sceneggiatura di Boris.

Per fortuna, invece, il nuovo film di Matteo Rovere, intitolato Il primo re, nella sale dal 31 gennaio racconta la storia di Romolo e Remo e della mitologica fondazione di Roma in maniera del tutto contraria a quanto appena descritto. È un film violento, viscerale e crudo, senza mai un attimodi tenerezza. Un film tutto in esterni ma quasi tutto buio e cupo. Un film d’azione, certo, di spadate in faccia, arti spezzati, acque morte e imputridite dal sangue, ma anche un film che ci interroga tutti sull’amore, sul potere, sulla volontà, sulla fede. È un racconto che non si fa risucchiare da alcuna retorica e che è profondamente realista sia nella resa visiva che nella recitazione, interamente in latino, che evita molto bene i rischi del peplum grottesco e anche della già citata poverata. Insomma, è un film coraggioso, il che in Italia è praticamente una breaking news.

Il primo re è un film che conferma il giovane Matteo Rovere, dopo che già tre anni fa aveva firmato il bel Veloce come il vento, come uno che si merita un posto tra quelli bravi, anche a livello produttivo. Rovere infatti non si limita affatto al compitino: contando su un cast capace di reggere due ore di latino senza mai far sorridere, in cui svetta un Alessandro Borghi che si dimostra ancora, dopo il bellissimo Sulla mia pelle, uno dei migliori che abbiamo nel mazzo, e, da non sottovalutare, una squadra creativa e tecnica che ha lavorato in maniera impeccabile, Rovere dimostra che produttivamente l’Italia è capace di fare film che non sfigurano nel circuito internazionale, sfrutta intelligentemente le coproduzioni internazionali, fa lavorare alla grande le maestranze italiane, con un risultato di cui il cinema italiano aveva bisogno.

Qualcuno dirà che la storia raccontata si distacca troppo dal mito, che non c’è traccia della Lupa, di Rea Silvia e dei colli de Roma. Qualcun altro dirà che è un film lento e che un’opera del genere, da presentare in latino sottotitolata anche al pubblico italiano, sarà per forza un flop. Gli si potrà rispondere che sono tutte cazzate. Che quello che manca di solito al cinema italiano è il coraggio e che invece Rovere ha a palate. Gli si potrà dire che, se il nostro cinema ha un problema, questo c’entra da una parte con la distribuzione, dall’altro con lo spazio occupato impropriamente da mostri sacri che sacri non sono per niente. E gli si potrà ricordare anche un’altra cosa: che in Italia c’è una generazione di trenta-quarantenni che, nel cinema e non solo, somigliano per bravura e coraggio ai grandi maestri molto di più di quei loro fratelli maggiori mediocri e stantii che ci rifilano ogni anno le stesse pavide storielle, i soliti inutili compitini.

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