Oggi ovviamente ci occupiamo del fallimento cum “salvataggio pubblico” di Carige, ch’è una specie di “inevaso” della recessione precedente, mentre sta già arrivando la prossima. I fatti son noti e le analisi dell’evento specifico mi sembrano siano già state correttamente fatte al di là, ed in negazione, della stucchevole propaganda governativa. Riassumiamo in ogni caso i tre aspetti maggiormente rilevanti per concentrarci poi sul problema di fondo che costituisce la vera causa non solo dei continui fallimenti bancari ma, soprattutto, della trasformazione del sistema creditizio italiano da allocatore di risorse per la crescita a distruttore delle medesime.
Il primo fatto da sottolineare è che l’intervento di questo governo copia, letteralmente, quelli dei due governi precedenti ed ha le medesime motivazioni. Le quali sono di clientelismo elettorale e nulla hanno a che fare con le buone regole della politica economica. La ricapitalizzazione d’urgenza e la garanzia sulle emissioni obbligazionarie – decise dal Consiglio dei Ministri in pochi minuti nella notte – servono ad evitare, ancora una volta, che i responsabili dei fallimenti paghino e che coloro i quali, in Italia, investono in azioni ed obbligazioni bancarie apprendano nei fatti che si tratta di attività potenzialmente redditizia ma anche rischiosa. L’intervento governativo avviene in risposta a quello della BCE ed è teso ad evitare che quest’ultima, applicando le corrette regole della BRRD, faccia gravare le perdite laddove dovrebbero gravare: azionisti ed obbligazionisti. La difesa dei depositanti e del risparmio sono bugie, in questo caso, esattamente come lo erano nei casi precedenti. L’intero arco parlamentare si conferma essere al servizio non dei correntisti (a quelli infatti ci pensa la BCE) bensì di lobbies di “banchieri locali”, ovvero azionisti ed obbligazionisti. Che siano piccoli o grandi fa zero differenza, sempre proprietari di banche sono e, dal PD sino alla Lega passando per M5S e FI, il sistema politico fa pagare le loro perdite a tutti i cittadini. I profitti no: quando i profitti arrivavano i banchieri se li intascavano.
Il secondo punto è che non esiste alcun argomento economico per salvare ogni banca avviata al fallimento – piccola, media o grande che sia. Questo è vero persino in quei casi in cui “salvare” non implica sussidiare banchieri parassitari (come si fa in Italia) ma anche solo tenere in piedi la struttura operativa per evitare di distruggere il capitale organizzativo che essa contiene. Questo secondo obiettivo, che ha valore sociale, si può tranquillamente raggiungere con una corretta applicazione della BRRD e permettendo che, attraverso meccanismi di mercato, altre banche meglio gestite acquisiscano il capitale organizzativo invece di dissolverlo.
Il terzo ed ultimo punto è che nel caso di Carige l’uso del sistema bancario a fini politici giunge al paradosso estremo d’introdurre banchieri di serie A (quelli che potrebbero votare per noi o lo hanno fatto o sono amici degli amici nostri) e banchieri di serie B. Infatti – e giustamente sia chiaro – mentre gli azionisti di MPS han perso il 99% del loro investimento quelli di Carige e delle due venete (ma guarda un po’ che caso) verranno rimborsati a spese di tutti i contribuenti. Invece di adottare regole di mercato trasparenti ed uguali per tutti, dove chi sbaglia paga, l’Italia scende sempre di più nel Medioevo economico dove gli amici del signorotto la fanno franca e quelli dell’avversario vengono puniti; sino a quando la giostra gira e s’invertono i ruoli.
Il capitalismo della provincia italiana, di cui gli azionisti di riferimento di Carige e Popolare Vicenza sono perfetti esempi, è un capitalismo signorile e di rapina: esso s’arricchisce mungendo i contribuenti per mezzo del credito facile ricevuto da istituti bancari controllati da amici compiacenti
Veniamo ora alla questione di fondo, già in parte sollevata da Francesco Cancellato nel suo editoriale di ieri: l’eterna commistione italiana fra banche e potere politico. Negli anni ’90 alcune riforme, volute fortemente da Ciampi e Draghi, avevano cominciato a rompere questo dannoso connubio ed è stata responsabilità di chi è venuto dopo (e del trio Berlusconi-Bossi-Tremonti in particolare) se questo processo si è fermato generando prima l’abberrazione delle fondazioni bancarie e poi l’attuale co-gestione del sistema bancario fra gruppi di potere politico e potentati economici locali. Uno sguardo anche superficiale alla vicenda Carige mostra come sia del tutto analoga a quella della Popolare di Vicenza, di Veneto Banca, di Banca Etruria, MPS e così via.
Il sistema bancario italiano è controllato a mezzadria da potentati politici e salotti economici locali – il fatto che la natura “ligure” di Carige o “veneta” di Banca Veneta siano follemente considerate un plus invece di un minus deve far pensare – i quali usano il sistema bancario come bancomat per se stessi e gli amici. Le banche italiane non falliscono per ardite speculazioni finanziarie o per strani giochi sui derivati: falliscono per migliaia di crediti andati a male e lasciati crescere di nascosto per anni sino a diventare inassorbibili. Una fetta sostanziale del credito che viene fatto in Italia è del tutto relazionale, persino familistico e certamente dipendente da protezioni politiche mischiate a quelle dei “potentati economici” della zona in cui la banca opera. Aziende con pochissimo capitale proprio ricevono crediti di relazione, del tutto immotivati sul piano economico, incassano i profitti finché ne arrivano e vengono liquidate dopo alcuni anni lasciando le banche creditrici con il cerino in mano ed un paio di nuove famiglie arricchite in provincia.
Sta qui il vero tumore del sistema bancario ed esso va oltre la continua intromissione del potere politico nella sua gestione per arrivare alla natura ed ai fondamenti del nostro “capitalismo di provincia”. Il quale non è arretrato solo perché composto in buona parte da piccole e piccolissime aziende inefficienti ma anche perché, in troppi casi e sull’intero territorio nazionale, esso è un capitalismo finto che non investe di proprio, non innova e non mira a creare unità produttive che generino ricchezza e crescita nel lungo periodo. No, il capitalismo della provincia italiana, di cui gli azionisti di riferimento di Carige e Popolare Vicenza sono perfetti esempi, è un capitalismo signorile e di rapina: esso s’arricchisce mungendo i contribuenti per mezzo del credito facile ricevuto da istituti bancari controllati da amici compiacenti. Tutto questo mentre sia la politica che il regolatore “guardano altrove” o, dicono, s’accorgono troppo tardi del disastro. Spiegazione che, essendo stata ripetuta negli ultimi 30 anni almeno due dozzine di volte, non è più credibile perché implica sovrana stupidità. Oppure tacita connivenza.