Basta aspettareNon saranno i dati economici mensili a dire se il decreto dignità funzionerà

Andrea Garnero, economista dell’Ocse: “Ogni 30 giorni maggioranza e opposizione usano i dati economici come una clava per attaccarsi, ma la bontà di un riforma si vede nel lungo periodo. Il decreto dignità si concentra solo sulla forma dei contratti: servono formazione e protezioni minime”

Ogni volta lo stessa storia. Prima un ente indipendente pubblica i dati economici dell’ultimo mese o trimestre. Poi i giornali diffondono i numeri in prima pagina come se da quel +1% o -1% cambiasse il destino dell’umanità. E infine, nei social inizia la battaglia tra maggioranza e opposizione con politici e fan dei due schieramenti che usano le cifre come una clava. Commentano gli stessi dati, ma danno interpretazioni radicalmente diverse, a seconda della loro narrazione. Magari dicono la verità, statistica, ma guardano ad aspetti differenti. E il mese dopo ricomincia la giostra. Sullo sfondo rimangono i cittadini che tra un boom promesso e un’apocalisse annunciata al mese non capiscono più se vivono nel Bengodi o in Venezuela.

Ora tocca al report dell’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps. Rispetto al 2017 sono aumentate le assunzioni nel privato (+5,1%) i contratti a tempo indeterminato (+ 200mila) e c’è stato boom delle trasformazioni da tempo determinato a indeterminato (+76,2%). Secondo il ministro del Lavoro Luigi Di Maio è la prova che il decreto dignità in vigore da novembre funziona. Mentre per l’ex ministro Maria Elena Boschi i dati positivi del 2018 sono merito della legge di bilancio del Partito democratico e da quando il M5S è al governo ci sono meno 75 mila disoccupati e meno 122mila contratti a tempo indeterminato.

«Il successo di una riforma del mercato di lavoro non si valuta perché c’è un +0.1 o un -0.2. I dati mensili sono parziali e variabili. Bisogna analizzare un periodo molto più lungo e tenere conto di tutti i fattori: vanno inseriti in un quadro generale di lungo termine semestrale o annuale», spiega Andrea Garnero, economista dell’Ocse, «L’aumento dello spread, le tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti e la recessione: gli ultimi due mesi sono stati a crescita negativa. Non si può dire con facilità che i dati di oggi sono solo l’effetto del decreto dignità. Ma vale oggi per Di Maio come ieri per Renzi».

Negli ultimi anni l’andamento dell’economia è diventato l’unico vero metro di giudizio di un governo. Per questo il primo messaggio da mandare all’opinione pubblica diventa la riforma del lavoro, soprattutto in un Paese con un alto tasso di disoccupazione giovanile. «Dal 1998 a oggi abbiamo fatto una riforma del mondo del lavoro ogni due anni. Senza contare i regimi transitori. A prescindere dal merito, cambiare così tanto crea solo confusione. Le imprese si ritrovano con lavoratori assunti con tipologie di contratto radicalmente diverse e non solo con o senza articolo 18».

Legge Poletti, Jobs Act, decreto dignità sono soluzioni parziali che non risolvono il vero problema. Il futuro del mercato del lavoro passa solo da due temi, da sempre ignorati: formazione e protezione dei lavoratori. «Parliamo tanto di formazione per aggiornare i lavoratori sulle nuove occupazioni e affrontare al meglio le sfide del mercato sempre più competitivo, ma non agiamo mai. Le Regioni avrebbero i soldi, anche grazie ai fondi dell’Unione europea manca la volontà politica».

L’altro storico problema italiano è la protezione dei lavoratori. Negli ultimi anni i vari governi hanno avuto un approccio diverso. L’ex presidente del Consiglio Mario Monti nel 2012 disse: «Che monotonia il posto fisso», spingendo per una forte flessibilità nel mondo del lavoro. Un approccio ideale per i lavoratori qualificati che hanno possibilità di scegliere tra più offerte e per i giovani, che per definizione hanno meno vincoli (casa, famiglia, mutuo), difficilmente applicabile per tutti gli altri. «La flessibilità di per sé non è un male, anzi. Ma la sfida è non farlo diventare un far west: salari sconnessi da riferimento legale, assenza di assicurazioni minime sindacali».

Anche il governo Renzi con il Jobs Act ha cercato migliorare la flessibilità. «In quella riforma ci sono importanti misure sui suissidi di disoccupazione e tutela dei precari, ma non abbastanza. Bisogna estendere i diritti base di protezione sociale: l’assicurazione per gli incidenti, il diritto alla maternità (e alla paternità), il sussidio di disoccupazione, la pensione. Anche a quelle categorie che non fanno un lavoro classico. Un rider non può essere considerato come uno che lavora alle Poste dalle nove alle cinque», chiarisce Garnero.

La risposta del governo Conte a questa esigenza è stata quella di stringere quella “valvola” di flessibilità aperta prima dal decreto Poletti nel 2014 e poi dal Jobs Act per incentivare le assunzioni, inserendo una riforma più rigida. Ma rimane un problema di fondo. «Non si può incasellare il lavoro in due sole macrocategorie: il dipendente fisso con contratto a tempo indeterminato, e il lavoratore autonomo. Nel mezzo c’è una varietà che non va ignorata ma regolamentata. Chi sta nel mezzo non ha bisogno di misure simbolo come il contratto a tempo indeterminato e l’articolo 18. Puoi averle entrambe ma se poi l’azienda fallisce?

Il decreto dignità potrà anche funzionare, solo il tempo potrà dirlo, ma ha un grave problema: si occupa solo delle forme contrattuali, senza andare oltre. Ci vuole una giusta misura tra flessibilità e rigidità», conclude Garnero. Solo il tempo ci dirà se il Decreto dignità ha stretto troppo, asfissiando il mercato del lavoro. Ma per gli impazienti che vogliono già conoscere il finale ci sono sempre i dati sull’occupazione del prossimo mese.

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