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La custodia dei cieli profondi (66thand2nd, 2018) è il terzo romanzo di Raffaele Riba, autore cuneense classe ’83, che nel 2014 ha esordito con Un giorno per disfare (66thand2nd), e nel 2015 ha pubblicato con Loescher Abbi pure paura. Ecco, dopo aver contestualizzato vorrei partire da qualcosa che non c’entra nulla, un tiro in porta dove chi afferra il pallone con due mani senza riuscire a trattenerlo è il lettore. Deve aver fatto una gran cosa chi ha calciato. Trasmesso intensità. Il giorno in cui ho letto La custodia dei cieli profondi per la prima volta mi sono limitato a questo, al titolo, che ha iniziato a girarmi in mente come l’estremità più profonda di un vortice. Punto che sono riuscito a raggiungere – e quindi a sfuggirgli – soltanto dopo l’ultima riga della pagina finale.
Quante volte vi sarà successo di avviarvi pigramente a una conclusione? «Sì, sta per finire. Ci siamo. Peccato, quella cosa resterà nascosta. O forse meglio così (ma non divaghiamo). Fine. Saluti a casa». Ma in questo caso stiamo parlando d’altro, di uno dei migliori romanzi del 2018 – uscito in sordina verso fine anno. E senza influire sulla prima lettura di chiunque posso dire che l’ultima frase de La custodia dei cieli profondi è roba da far saltare in aria le sopracciglia. L’ultima di una serie di cose regalate dalle sue pagine. Che consiglio di leggere. Tutto qui. Mettersi da parte è una forma di rispetto difficile, ci provo ugualmente, e per non entrare in un circolo vizioso penso che la cosa migliore sia lasciare spazio al dialogo con Riba.
La custodia dei cieli profondi è un romanzo caratterizzato da una scelta linguistica non in linea con la narrativa contemporanea. E una convinzione diffusa recita che la buona letteratura non necessita di una trama da romanzo giallo. Questo significa che la lingua è parte integrante della narrazione? E se sì, fino a che punto? «Sì, ma c’è di più. Non credo che separare significante e significato, trama e lingua, sia un buon modo di vedere le cose. Per me un intreccio nullo, raccontato con una prosa sopraffina, è una storia brutta raccontata bene. Così come un intreccio mozzafiato raccontato male è una storia interessante raccontata male. In entrambi i casi siamo di fronte a qualcosa di incompleto o comunque uscito male. Trama e lingua sono due ingredienti da dosare al meglio per ottenere un qualcosa di nuovo, una soluzione omogenea con caratteristiche proprie, ben bilanciate e stabili».