Ieri l’altro, buon’ultima, anche la Commissione Europea ha certificato che, almeno sulla base di quanto è oggi evidente, l’Italia non crescerà durante il 2019. La stima puntuale offerta dalla Commissione (+0,2%) è l’equivalente di un errore statistico, quindi non vuol dire niente di diverso da zero. Quella al momento è la previsione: stagnazione. Ma, come è evidente a chiunque osservi la correlazione fra previsioni e successive realizzazioni, quelle della Commissione tendono sempre ad essere “ottimiste” (per ragioni che non è difficile intendere) e si aggiustano alla realtà con considerevole ritardo. Lo 0,2 di oggi, infatti è l’ultimo di una serie di aggiustamenti al ribasso che, negli ultimi otto mesi circa hanno riconosciuto quello che altri dicevano da tempo.
L’economia italiana, dopo un relativamente breve e fiacco rimbalzo del gatto morto iniziato fra il 2015 ed il 2016 (a seguito della peggiore recessione del dopoguerra), è ritornata da almeno 8 mesi alla sua condizione strutturale di stagnazione con tendenziale discesa. Il declino, appunto, che dura dagli anni ’90 ed è diventato evidente ai più da un decennio circa. Ripeterlo una volta ancora dà un senso di nausea e di impotenza, vista l’assoluta indifferenza con cui l’insistere di (troppo pochi) sul declino strutturale in corso è stato ricevuto negli ultimi due decenni. Ma questi sono i fatti e la recessione italiana in corso – piccola o grande che essa si riveli nei mesi che verranno – è da leggersi in questo quadro. La recessione è oramai una condizione strutturale dell’economia italiana nel suo complesso – sì, ci sono le eccezioni ma sono tutte concentrate in un tubo del raggio di 150 km circa intorno al Po ed anche esse diminuiscono con il passare degli anni – e solo provvedimenti di natura strutturale potranno invertire la tendenza. E ci vorranno anni, parecchi, non mesi o trimestri.
Con questo si intende dire che non vale neanche più la pena continuare a dibattere le scemenze che da ogni lato – dal governo rossobrunato e da chi ha governato sino ad un anno fa, ma anche dagli ambienti confindustriali e sindacali e dai soloni che pontificano da grandi quotidiani e tv – continuano ad arrivare a ritmo frenetico sulla necessità di far ripartire la “domanda” con questo o quel trasferimento, spesa pubblica, sussidio, facilitazione o quant’altro. Queste populistiche follie, in atto dall’inizio degli anni ’80, sono la causa del declino e possono solo aggravarlo. Che così sia è palese a tutti coloro che non sono in malafede o totalmente ignoranti o a caccia d’inutili applausi dai parassitici recettori di prebende. Quel poco che rimane d’Italia produttiva e, nonostante tutto, ottimista, deve trovare il coraggio per smetterla di farsi prendere in giro da dibattiti che possono essere definiti solamente come insulsi.
Possiamo uscire crescendo solo con drammatiche riforme strutturali i cui effetti saranno visibili solo in un lustro o più. Ma questo le elite socio-economiche italiane non lo vogliono sentire, o comprendere
La questione non è più economica ma tutta e solo politica. I problemi economici sono chiari e sono stati analizzati sino alla noia: tasse asfissianti, spesa pubblica alta ed improduttiva, sussidi ad ogni forma di attività inefficiente, sistema bancario decotto, sistema scolastico ed universitario incapace di formare forza lavora produttiva, assenza di concorrenza e dominio del familismo e della mediocrità, Meridione (che comincia a Roma) paralizzato in un Medioevo assistito da trasferimenti a pioggia, barriere all’entrata d’imprese efficienti ed all’adozione delle tecnologie di frontiera. Queste cose le sappiamo da decenni. Non le hanno create i rossobrunati al governo, stanno solo cercando di rapidamente aggravarle.
Chiediamoci perché, allora, continuiamo ad ignorarle. Da questa e dalla prossima recessione – se grandi o piccole lo decideranno gli shock esterni e l’attitudine dei mercati finaziari nei confronti del nostro sempre crescente debito – possiamo uscire crescendo solo con drammatiche riforme strutturali i cui effetti saranno visibili solo in un lustro o più. Ma questo le elite socio-economiche italiane non lo vogliono sentire, o comprendere. Preferiscono, come han sempre fatto, affidarsi al potente di turno, afferrare il piccolo sussidio immediato (quando viene) e poi aspettare sino al prossimo giro. La responsabilità del declino strutturale, signore e signori, è vostra perché vostro è il potere economico e mediatico; non di altri, non della ggente che applaude sotto il balcone i decreti dell’indegnità e del sussidio clientelare.
Sino a quando non esisterà consapevolezza diffusa dello stato reale delle cose, sino a quando si continuerà ad illudere il “popolo” (e questo chiederà d’essere illuso) che si cresce spendendo a vanvera e trasferendo potere d’acquisto ai furbetti, sino a quando non vi sarà una forza politica capace di almeno farsi sentire mentre dice tutto questo, il declino continuerà inesorabile. Quello che bisogna fare richiede una consapevolezza dei problemi ed un caparbio e paziente ottimismo che solo quel che rimane di Italia produttiva, capace ed ottimista può offrire. E per offrirlo deve trovare il coraggio di farsi anche classe politica dirigente. La responsabilità è tutta nostra.