È il matrimonio tra un cieco e uno zoppo? È l’ennesima furbata tedesca per aggirare il bail-in? È il ritorno in grande stile dello stato nelle banche alla faccia della concorrenza e dell’antitrust? Chissà, il progetto di unire Deutsche Bank e Commerzbank sponsorizzato dal ministro tedesco delle finanze, il socialdemocratico Otto Scholz, per creare la seconda megabanca europea ha in sé un po’ di tutto questo, ma soprattutto dimostra che l’Europa è ancora alla ricerca di un proprio modello creditizio e, a differenza dagli Stati Uniti, non ha mai risolto una volta per tutte la crisi del 2008. Con un sistema finanziario bancocentrico dove la maggior parte dei finanziamenti alle famiglie e alle imprese passa attraverso le aziende di credito (le borse ovunque nell’Europa continentale sono secondarie), è un guaio serio.
Facciamo un passo indietro: come si è arrivati a questo punto? Tutto nasce dalla Deutsche Bank, un tempo baluardo del Modell Deutschland, ma da un decennio ormai alla ricerca di una nuova identità. La sua crisi affonda le radici non in un sistema tedesco immobile e tetragono, ma nel tentativo di sciogliere l’intreccio perverso tra banca, assicurazioni e industria sul quale era stata costruita la potenza economica germanica fin dai tempi di Bismarck. La riforma, avviata dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder (lo stesso che ha liberalizzato le norme per l’impiego) era diventata necessaria anche in vista dell’euro, quando ancora si credeva nella possibilità di creare un vero mercato unico dei capitali, dei risparmi e, in prospettiva, persino del lavoro. Ma ha spinto le banche a cercare altri modi di fare business fuori dai confini nazionali e in territori per loro inesplorati, soprattutto con il puro gioco finanziario.
La Deutsche Bank ha svolto un ruolo di punta nell’unificazione delle due Germanie. Mentre il muro stava ancora crollando, il 30 novembre 1989, il suo presidente, Alfred Herrausen, uno dei maggiori sostenitori della riconciliazione nazionale, venne ucciso in un attentato probabilmente organizzato dalla Stasi non della Raf, la Rote Armee Fraktion, come si disse fin dall’inizio. Proprio la nuova grande Germania con il suo ampio cortile di casa nell’est europeo aveva rafforzato la vocazione di banca d’affari. Mentre negli anni del boom americano, spinto dalla rivoluzione high tech e dalla globalizzazione, con la compravendita di aziende e anche di titoli cartacei si guadagnava molto più che prestando denaro. E poi c’era la nuova cornucopia di derivati, fino ai subprime.
Attorno alla Deutsche Bank si è stesa una cortina di omertà e una rete trasversale di sicurezza. La grande malata ha 25 mila miliardi di swaps otc (over the counter cioè a trattativa privata) con la Bce e con le grandi banche europee, ciò la rende fragile e allo stesso tempo inaffondabile a meno di non colare tutti a picco con lei
Quando la bonanza è finita, si è scoperto che le banche tedesche, alla faccia della stabilità e della ortodossia finanziaria, erano tra le più esposte. Tanto che la danza macabra della grande crisi fu aperta nell’estate del 2007 dalla IKB. Nata per finanziare l’industria e diventata una sorta di fondo speculativo, è stata nazionalizzata per non farla fallire, così come la Commerzbank che nel 2008 aveva ingoiato la Dresdner, diventando anche lei troppo grande per fallire. Attorno alla Deutsche Bank si è stesa una cortina di omertà e una rete trasversale di sicurezza. La grande malata ha 25 mila miliardi di swaps otc (over the counter cioè a trattativa privata) con la Bce e con le grandi banche europee, ciò la rende fragile e allo stesso tempo inaffondabile a meno di non colare tutti a picco con lei. Tenere a galla un bastimento così pesante con guadagni facili e abbondanti non ha funzionato, anzi è diventato un boomerang. La manipolazione dei tassi di riferimento Euribor e Libor è costata nel 2015 una multa da 2,5 miliardi di dollari; il tentativo di lucrare sul mercato dell’oro ha messo in allarme la magistratura svizzera; le operazioni in Russia hanno provocato l’accusa di riciclaggio e violazione delle sanzioni (anche con l’Iran la banca è sospettata di non aver rispettato l’embargo). C’è poi l’evasione fiscale che riguarda lo scambio dei diritti di emissione dei gas.
L’amministratore delegato, il britannico John Cryan, nominato nel 2015, doveva portare nuovo dinamismo e stabilità ai vertici dopo la lunga catena di dimissioni e licenziamenti, il più clamoroso dei quali riguarda il potente banchiere svizzero Josef Ackermann nel 2013. Ma ha tagliato sportelli (i 18 mila aperti in Germania non producono un euro di utile) e dipendenti (se ne andranno in 35 mila), senza intravedere la svolta. Nell’aprile dello scorso anno è stato nominato Christian Sewing, tedesco e, con i suoi 47 anni, il più giovane capo nei 150 anni di storia della banca. È il terzo cambio al vertice in sei anni, dopo un triennio consecutivo di perdite. In seguito all’aumento di capitale da 8 miliardi di euro (la quarta iniezione di capitale dal 2010), dal maggio 2017 il maggior singolo azionista è un conglomerato cinese, HNA Group, con una partecipazione del 10% del capitale ridotta all’inizio del 2018 al 7,9%.
L’ultimo ricorso al mercato non ha risolto i problemi tanto che la Bce ha chiesto un nuovo rafforzamento patrimoniale in modo da mettere al sicuro azionisti e risparmiatori. La banca ha una montagna di derivati, il cui vero ammontare è oggetto di disputa. Secondo le spiegazioni ufficiali sarebbero in linea con le banche d’affari. Ma il problema è proprio qui. La Deutsche Bank vuole cambiare di nuovo il proprio modello di business, tornando a fare la banca a tutto tondo e finanziare l’economia anche il Mittelstand e proprio questo richiede una solidità che oggi non può garantire. La Deutsche Bank ha registrato una leggera ripresa nel 2018 per la prima volta dopo quattro anni. Tuttavia il titolo che nel 2014 valeva 34 euro, viaggia oggi a quota sette e il prezzo dei credit default swap sulle sue obbligazioni si è impennato in breve tempo e secondo il quotidiano Die Welt proprio questo ha convinto il ministro e il suo segretario di Stato Jörg Kukies, ex banchiere di Goldman Sachs, a cercare una via d’uscita attraverso il matrimonio con la Commerzbank che è a metà strada di una ristrutturazione destinata a durare ancora almeno un anno e che è già stata salvata nel 2009 da interventi statali per un totale di 18,2 miliardi di euro.
L’Antitrust non vede di buon occhio l’operazione, ma dopo le elezioni del prossimo maggio tutto può cambiare
Fondata ad Amburgo nel 1870, la Commerzbank è stata la prima ad aprire una filiale a New York esattamente cento anni dopo, ma la sua avventura americana è stata ampiamente ridimensionata già prima della grande crisi finanziaria che l’ha messa a terra. La responsabilità ricade ampiamente sul governo che nel 2009, per evitare il fallimento della Dresdner Bank che avrebbe trascinato con sé anche il colosso delle assicurazioni Allianz, ha spinto la Commerz a fondersi con la Dresdner; in cambio il Soffin, fondo straordinario federale per la stabilizzazione dei mercati finanziari (Sonderfonds Finanzmarktstabilisierung) ha sottoscritto un aumento di capitale che l’ha portato a controllare il 25% del capitale del nuovo gruppo. Nel 2011 la maggior parte dei fondi ricevuti sono stati restituiti e nel 2013 la partecipazione del Soffin era scesa al 17,15%. Oggi s’aggira sul 15%, ma in ogni caso resta il veicolo attraverso il quale lo stato entra direttamente nella costituzione del nuovo colosso creditizio e finanziario. Una operazione temporanea si dice. Già, magari come quella del governo italiano nel Monte dei Paschi di Siena? E’ vero che né Deutsche né Commerz sono sull’orlo del crac, tuttavia la fusione (se si farà) resta una operazione difensiva.
«La Germania crea un nuovo gigante bancario malato che è troppo grande per fallire», avverte Lisa Paus, deputata dei Verdi. Il ministro delle finanze, di fronte alle debolezze dei due istituti, teme di dover affrontare una nuova crisi bancaria proprio nell’anno delle elezioni europee. Ma l’altra grande paura è quella di perdere Commerzbank, dopo l’interesse mostrato da Bnp Paribas e, scrive Die Welt, anche da Unicredit, lasciando Deutsche sola davanti ai propri problemi. Contrari i sindacati i quali temono pesanti tagli con la perdita di 30 mila posti di lavoro. Otto Fricke, esperto economico del partito liberale giudica “superata” l’idea: una Deutsche-Commerzbank anziché essere un campione nazionale competitivo si trasformerebbe in una insostenibile zavorra per lo stato. Anche l’Autorità bancaria europea ha già manifestato le proprie forti perplessità. Tanto rumore per nulla? Una grande incognita riguarda non solo l’atteggiamento della Bce, ma quello di Bruxelles. L’Antitrust non vede di buon occhio l’operazione, ma dopo le elezioni del prossimo maggio tutto può cambiare. A Berlino si chiedono se conviene forzare i tempi o magari attendere che al posto di Jean-Claude Juncker sieda Manfred Weber, lo spitzenkandidat del Partito popolare che, comunque vada, si confermerà primo partito al parlamento europeo. Politique d’abord, è una espressione francese, ma vale anche al di là del Reno.