Ma questo Isis, muore o non muore? Stavamo ancora piangendo le vittime della strage in Nuova Zelanda che l’Isis, Al Qaeda e le più varie sigle all’islamismo armato ricominciavano a bussare alla nostra porta. Con le minacce di vendetta per le 50 vite musulmane annientate dal suprematista Brenton Tarrant nelle moschee di Christchurch. Con l’uccisione, debitamente esaltata via Internet, di Lorenzo Orsetti, il volontario italiano che combatteva in Siria accanto ai curdi e contro l’Isis. E con la sparatoria di Utrecht (Olanda), dove un uomo di origine turca, Gokmen Tanis, noto per le sue simpatie per l’Isis e per aver partecipato giovanissimo alla guerra in Cecenia, si è messo a sparare sui passeggeri di un tram. Alla fine è parso che Tanis, condannato per tentato omicidio e indagato per stupro, fosse più un delinquente che un terrorista. Ma l’Olanda ha reagito “come se”. Per qualche ora abbiamo temuto che la vendetta fosse già arrivata. O, peggio ancora, che fossimo tornati ai tempi più cupi, quando le uccisioni in Siria andavano in parallelo con gli attentati in Europa.
Intanto a Baghuz, oscura città siriana appoggiata all’Eufrate a poca distanza dal confine con l’Iraq, dove appunto Orsetti è caduto, centinaia di jihadisti hanno scelto di combattere l’ultima battaglia campale dell’Isis, fino alla fine loro e delle loro famiglie. Considerato che l’Isis si era insediato tra Siria e Iraq nell’estate del 2014 (e allora era già in giro da un po’), alla fine della fiera ci sarà voluto più tempo a sbarazzarsi di Al Baghdadi e dei suoi di quanto ne occorse per far cadere Hitler e la potente macchina da guerra del nazismo. Per non parlare delle poche settimane che sono bastate a spazzar via Slobodan Milkosevic, Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi.
Il problema è che la morte dell’Isis è un falso problema. Quand’anche l’Isis sparisse, un “fenomeno” simile, che potrebbe chiamarsi di nuovo Stato islamico o Armata della rinascita o Onda dei martiri o Gianfilippo, non avrebbe alcuna importanza, potrebbe sostituirlo in breve tempo. Questo perché non siamo mai davvero intervenuti sul motore dell’islamismo armato, che è il denaro. Nè abbiamo mai davvero cercato di chiudere le fabbriche che producono e distribuiscono quel motore, che sono gli Stati del Golfo Persico.
Reza Safa, uno sciita iraniano convertito al cristianesimo autore di un controverso best seller sul mondo islamico (“Inside Islam” del 1996), calcolava che in trent’anni la sola Arabia Saudita avrebbe investito nel proselitismo quasi 90 miliardi di dollari. Fahad, re dell’Arabia Saudita dal 1982 al 2005, con il solo suo argent de poche, ha fatto costruire 2000 scuole islamiche, 202 collegi universitari e 1500 moschee in tutto il mondo
Certo, quelli non sono gli unici a farlo. Ma nessun altro Paese è in grado di garantire all’integralismo, all’estremismo islamista e al terrorismo l’enorme quantità di mezzi che sono capaci di provvedere Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti o Qatar, per fare alcuni esempi. Prima che qualche anima bella si adonti, visto che stiamo parlando dei migliori amici e dei più ambiti soci in affari degli Usa e dell’Europa, citiamo qualche carta. Per esempio la mail che Hillary Clinton, allora segretario di Stato, scrisse ai suoi collaboratori il 30 dicembre 2009: “L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per AL-Qaeda, i talebani… e altri gruppi terroristici, compreso Hamas… i donatori dell’Arabia Saudita costituiscono la più cospicua fonte di finanziamento per i gruppi del terrorismo sunnita nel mondo”. E ancora la Clinton, questa volta nei panni del candidato alla Casa Bianca, in una mail inviata a John Podesta, capo della sua campagna elettorale: “Dobbiamo usare tutte le nostre capacità diplomatiche e di intelligence per premere sui governi di Qatar e Arabia Saudita che continuano fornire finanziamenti e supporto all’Isis e agli altri gruppi sunniti radicali della regione” (2015).
Questa storia va avanti da una quarantina d’anni, da quando cioè nei primi anni Ottanta un brillante giovanotto saudita se ne stava a Peshawar (Pakistan) a ricevere denari del Golfo e a distribuirli ai jihadisti che allora chiamavano, più discretamente, mujaheddin del popolo perché sì, è vero, sparavano a degli europei, però a degli europei sovietici, cosa che ci andava benone. Il giovanotto si chiamava Osama bin Laden. Ed è chiaro che in quarant’anni di danni se ne fanno.
Quel che più conta, però, è capire che accanto al terrorismo vero e proprio quei Paesi hanno finanziato con somme enormi la diffusione di una versione integralista ed estremista dell’islam, quella di stampo wahabita, che è l’anticamera del terrorismo ed è anche la grande incubatrice di quelli che il giorno prima sono il simpatico fioraio pakistano o il panettiere tunisino e il giorno dopo sono i kamikaze della metropolitana di Londra. Reza Safa, uno sciita iraniano convertito al cristianesimo autore di un controverso best seller sul mondo islamico (“Inside Islam” del 1996), calcolava che in trent’anni la sola Arabia Saudita avrebbe investito nel proselitismo quasi 90 miliardi di dollari. Nel 2006 Patrick Sookdeo, direttore dell’Istituto for the Study of Islam and Christianity di Londra, sosteneva che Fahad, re dell’Arabia Saudita dal 1982 al 2005, con il solo suo argent de poche, aveva fatto costruire 2000 scuole islamiche, 202 collegi universitari e 1500 moschee in tutto il mondo.
È questo il grande vivaio del terrorismo islamista sunnita. Se non siamo in grado (e l’Europa certo non lo è) o non vogliamo (e gli Usa certo non vogliono) intervenire qui, è perfettamente inutile chiedersi se l’Isis è malato, morente o stecchito. Morto un Isis, con tutti quei soldi se ne fa un altro.