«È ora cosa devo fare?». «Aspettare. Se la sua domanda è corretta, l’Inps le invierà un messaggio per il ritiro della tessera». «Ma quando?». «Ad aprile ma non le so dire di più». Il tono della cassiera delle poste italiane è garbato perché sono le 09.30 e davanti a lei c’è solo il terzo signore della giornata a presentarle i documenti per ottenere il reddito di cittadinanza. Sono passati almeno venticinque minuti da quando l’uomo sulla cinquantina le ha porto l’Isee. Dopo ci sono state tante domande sul nucleo familiare: «Ha un parente che nell’ultimo anno si è licenziato? Ha comprato un auto negli ultimi sei mesi?». I due se la prendono comoda, perché dietro non c’è quasi nessuno. Un sollievo dopo l’incubo delle lunghe code agli sportelli predetto dagli esperti nelle ultime settimane. La verità è che la prima data utile per chiedere il reddito di cittadinanza è un giorno come gli altri. Non sono solo il meccanismo complicato, l’incertezza o la possibilità di fare domanda anche online o in uno dei diecimila Caf a scongiurare la ressa. C’entra anche la geografia. Siamo a Isola, ex quartiere periferico di Milano, rinato dopo l’Expo di 2015. Qui vivono giornalisti e manager. Qualche maligno direbbe radical chic. Nel circondario ci sono più locali per fare aperitivi che supermercati. Prima dell’apertura delle poste quasi nessuno si aspettava che qualcuno chiedesse il reddito di cittadinanza: «Ma ti pare che a Milano la gente lo chiede? Qui si lavora, l’elemosina si fa a Centrale» dice con spavalderia un signore cercando l’approvazione negli occhi degli altri in coda. Poi capisce di essere stato troppo ottimista e abbassa le aspettative: «Vabbe, poi è fisiologico, siamo due milioni di persone con l’hinterland, qualcuno a chiedere questo reddito ci sarà».
A confermare l’affermazione generica sarà poi un altro signore sulla quarantina. Il quarto delle giornata a presentarsi per il reddito in via Porro Lambertenghi. È il più giovane, finora. Gli chiedono la mail, ma non ce l’ha. Pretendono la tessere sanitaria, ma non serve. «Basta il numero di telefono è la carta d’identità, l’ho letto nel sito». «Scusi dobbiamo rodarci» spiega la dipendente cercando di stemperare la tensione. Il paradosso è che ne sa di più il richiedente dei dipendenti. Non è l’unico. I pochi che hanno deciso di andare al Patronato Inca-Cgil di via Volturno ripetono tra loro come studenti preparati prima di un esame. «Oggi sono aumentati del 30% rispetto al 6 marzo dell’anno scorso gli utenti che hanno presentato l’Isee», spiega M.P., uno dei dipendenti del Caf. «Ma non c’è stata la ressa, anzi. Qui si sono prenotati tutti in tempo, sono abituati con le domande di rinnovo per le case popolari dell’Aler». Per avere il reddito non ci vuole una laurea, in tutti i sensi. Le domande in sono semplici e le informazioni facilmente riperibili, specialmente per chi sa di avere poco o niente. Ma in teoria sì può barare. «Io controllo sempre, ma basta rispondere sì alla domanda se si hanno i requisiti per accedere al reddito. Senza bisogno di farli certificare a un altro. Però è un gioco masochista perché la domanda sarà respinta», dice M.P. dando fiducia all’Inps.
A fine giornata sono 45mila le richieste per ottenere il reddito di cittadinanza presentate in tutta Italia. Il 2,5% della platea che ne ha il diritto.
A Corvetto lo scenario cambia. Siamo alle poste di via Gamboloita. C’è una fila più corposa, fin dalla mattina presto dicono i dipendenti in pausa sigaretta. Alle 13 il numero dei biglietti staccati per le richieste allo sportello è arrivato a 200. Pochi anziani, molti stranieri e casalinghe: egiziani, dominicani, marocchini. Più che un dato statistico è una conferma sociologica. Corvetto è uno dei quartieri con più alto tasso di immigrati a Milano. C’è un cartello bianco con una scritta nera: «Per una migliore gestione del reddito di cittadinanza vi invitiamo a presentare le domande in funzione del cognome dei richiedenti». I cognomi che iniziano con A e B il 6 marzo, C il 7, D e F l’8 è così via. Ma si presenta anche chi ha le iniziali che iniziano per v, m, l o p. Non hanno tempo da perdere. «Già ci vuole tanto prima di prendere lo stipendio, che vuole che me ne freghi della lista, tanto accolgono comunque la domanda». Pragmatismo o menefreghismo?
Sono pochi a voler parlare. Ma lo fanno per strada, a bassa voce. «Non mi va che mi guardino male, guardi che io ho lavorato per tutta la mia vita, sa! Me lo merito una pensione migliore altro che cazzeggiatore». Tutti gli intervistati parlano del reddito, nessuno delle offerte di lavoro connesse allo stipendio. Quando proviamo ad accennare se capiscono la portata della richiesta ci sentiamo rispondere: «Perché me lo chiede? Cosa le importa? È delle agenzie delle entrate?». Mentre un altro insospettito dalle tante domande ci fotografa. Non si sa mai. Potrebbe tornare utile un giorno. Rispetto a Isola a Corvetto sono meno informati. A.D viene dal Cairo e ha tirato un sospiro di sollievo quando la cassiera delle poste le ha confermato che possono fare domanda gli stranieri che vivono da più di dieci anni in Italia. A. è arrivata qui nel 2007 e per anni ha fatto la badante, l’addetta alle pulizie e la cameriera. Da tre mesi però non lavora più. «Non è stato facile seguire tutto, ma la signora alla cassa è stata molto gentile e per fortuna ha avuto tanta pazienza», spiega con un italiano più timido che incerto. «Ho bisogno di respirare. Mio figlio di 10 anni è nato in Italia e questi soldi ci farebbero comodo per stare più tranquilli». Non è l’unica ad avere la speranza negli occhi. Il contatore delle richieste personali a metà pomeriggio arriva a 140. Saranno 45mila le domande presentate in tutti gli uffici d’Italia. Il 2.5% della platea che ne ha diritto.