15 miliardi di cibo buttato ogni anno: lo spreco alimentare è una vergogna (ed è ora di darsi una mossa)

Ogni anno buttiamo 36 kg di cibo nel cestino di casa. Uno spreco che vale 15 miliardi di euro. Un danno anche per l’ambiente perché quel cibo non consumato corrisponde a 24.5 milioni di tonnellate di CO2. Ma tra app, software che usano gps e associazioni la tendenza a sprecare è sempre minore

La nostra proposta: lo spreco alimentare è un tema fondamentale in un continente che produce meno cibo di quello che consuma e nel quale le disuguaglianze sociali crescono di anno in anno. Nella scorsa legislatura europea, all’interno del pacchetto sull’economia circolare, sono già state inserite, per la prima volta, misure obbligatorie di prevenzione. Più precisamente, dice il Parlamento, la Commissione Europea dovrà valutare entro il 2023 la possibilità di ridurre del 50% lo spreco alimentare entro il 2030. A mancare tuttavia è la definizione armonizzata del problema e una metodologia di calcolo dello spreco. In assenza di esso, nessuna politica può essere portata a termine. Ai candidati chiediamo di farsi carico della definizione di tale metodologia, affinché questo ottimo proposito non rimanga sulla carta.

Ogni anno buttiamo 250 euro di cibo nel cestino. Più o meno 15,5 miliardi di euro gettati al vento, lo 0.95% del Pil. E la colpa non è solo della grande distribuzione, dei supermercati, delle mense nelle scuole e negli ospedali o della filiera agroalimentare. Il problema siamo noi: perché oltre la metà (il 54% secondo i dati Fao del 2018) del cibo viene sprecato tra le nostre quattro mura. Vale 8,5 miliardi. Sono la mela ammaccata che ci fa schifo mangiare, le foglie di lattuga più dure che non ci piace mettere nelle nostre insalate (7,1 kg di verdure), il cartone del latte che abbiamo scordato in frigo e che non vogliamo finire (4,8 kg di latte e latticini) o il pane che abbiamo lasciato ammuffire (3.2 kg di prodotti da forno). Totale? 36,7 kg. E quattro volte su dieci succede perché i prodotti hanno raggiunto o superato la data di scadenza (46%). Non è solo uno spreco per noi, ma un danno anche per l’ambiente perché quel cibo non consumato corrisponde a 24.5 milioni di tonnellate di CO2 (dati Coldiretti). Se lo spreco alimentare fosse un Paese, sarebbero il terzo a produrre più gas serra nel mondo, considerando tutta la filiera per portare il cibo in tavola. E secondo la Fondazione Barilla entro il 2030 getteremo 2,1 miliardi di tonnellate di cibo nel mondo. Oltre il 60% rispetto a oggi. Ma il problema più grave è quello della percezione: 4 italiani su 5, secondo il Rapporto Waste Watcher 2017, pensano che a sprecare cibo siano gli altri: nel commercio, nelle scuole e negli ospedali.

L’unica consolazione, se c’è, è che non siamo soli. Ogni anno un alimento su tre prodotto a livello mondiale viene perso lungo la filiera alimentare. Sono 1,3 miliardi di tonnellate con cui si potrebbe sfamare quattro volte le 821 milioni persone che soffrono la fame nel mondo (Fao 2018), compresi i 43 milioni di cittadini che nell’Unione europea non possono permettersi un pasto completo ogni due giorni Un costo non solo umanitario ma anche economico: 900 miliardi di dollari buttati, in tutti i sensi. I numeri citati dal Crea (Centro di ricerca Politiche e Bioeconomia 2019) sono implacabili ma c’è un miglioramento rispetto al passato ed è dovuto più alle azioni della grande distribuzione che al comportamento individuale. Secondo la Fondazione Banco Alimentare, che dal 1989 si occupa di raccogliere gli alimenti invenduti dalle grandi aziende, negli ultimi mesi c’è stato un aumento del 20% del recupero delle eccedenze dalla grande distribuzione e della ristorazione. Sono aumentate le donazioni di alimenti: 91.235 tonnellate date alle 8.042 strutture caritative e mense in tutta Italia.

Per risolvere il problema dello spreco alimentare bisognerebbe aumentare l’educazione alimentare ma nel nostro Paese l’idea di fare la spesa una volta al giorno prendendo solo gli alimenti che servono sembra un’abitudine da studente fuori sede o chiedere di portare a casa il cibo avanzato quando si va a mangiare fuori, la doggybag, pare una “americanata” da poveri

Per risolvere il problema dello spreco alimentare ci sono due strade. La prima è quella dell’educazione alimentare, decisiva secondo sette italiani su dieci (Osservatorio Waste watcher), ma ancora poco praticata nel nostro Paese. dove l’idea di fare la spesa una volta al giorno prendendo solo gli alimenti che servono sembra un’abitudine da studente fuori sede. Oppure chiedere di portare a casa il cibo avanzato quando si va a mangiare fuori, la doggybag, pare una “americanata”. La chiede solo un italiano su tre. Dove non può il comportamento individuale arriva la tecnologia. Negli ultimi anni sempre più aziende e associazioni stanno utilizzando confezioni di nuova generazione, software e app per diminuire in tempo rapido gli sprechi.

Da tempo la grande distribuzione si è mossa prima di tutti per eliminare gli sprechi alimentari. Come segnalato la scorsa settimana da Linkiesta uno strumento utile per la Gdo è l’Optimal shelf availability (OSA), il barometro che monitora mese per mese il livello delle rotture di stock nei punti vendita della distribuzione alimentare. Una iniziativa di Gs1 Italy che tramite il progetto Immagino raccoglie in un database tutte le informazioni dei prodotti delle 1650 aziende della community e salva i prodotti fuori stock dallo spreco consegnandolo all’Associazione Banco Alimentare della Lombardia “Danilo Fossati” Onlus. Sempre il Banco Alimentare ha sviluppato con la Fondazione Bruno Kessler di Trento l’app Bring the Food che permette a piccoli e grandi distributori di segnalare le eccedenze alimentari e permettere alle Onlus e agli enti caritatevoli di prenotarli e ritirali con un codice predisposto. In Italia non è ancora arrivato il software di machine learning Vision, ideato dalla start up londinese Winnow Solutions. Un dispositivo attaccato ai bidoni della spazzatura di ristoranti e supermercati che che segnala in un tablet quali alimenti sono stati buttati nel cestino. Con i dati raccolti i manager della grande distribuzione e gli chef possono capire quanto cibo serve veramente ai loro clienti e ridurre gli sprechi. Addirittura in Germania il land della Baviera sta finanziando con il ministero dell’agricoltura e l’azienda Fraunhofer uno scanner a infrarossi che permetta di controllare tramite smartphone la deperibilità del cibo e convincere quei consumatori che non comprano alcuni alimenti perché brutti esteticamente.

Non solo grande distribuzione. Negli ultimi mesi la tecnologia si è fatta a misura di individuo e può aiutare a cambiare le nostre abitudini quotidiane. La start up di Chicago Ovie ha messo da poco in commercio degli Smarterware, contenitori intelligenti che monitorano la deperibilità del cibo e segnalano quando stanno per scadere, cambiando colore da verde a giallo fino a rosso. Il tapperware 2.0 può essere collegato allo smartphone inviando una notifica per non far marcire gli alimenti in frigo o a sistemi come Alexa di Amazon. L’ultima arrivata è l’app danese Too good to go, troppo buono per essere buttato, scaricata da otto milioni di utenti in nove Paesi. L’app permette ai gestori di ristoranti, bar, forni e supermercati di vendere online una Magic box, ovvero un sacchetto con una selezione delle proprie eccedenze considerate invedibili ma in realtà ancora commestibili. L’idea dei creatori dell’App è quella di creare una rete virtuosa di cittadini che portandosi le confezioni da casa possano ridurre gli sprechi per trasportare il cibo invenduto: per ogni Magic Box si dovrebbe evitare l’emissione di 2 chilogrammi di CO2. Finora hanno aderito Carrefour, Exki e Eataly. Tra le altre app da segnalare c’è MyFoody, startup nata a Milano nel 2015, che permette di trovare le offerte dei prodotti in scadenza o con confezionamenti difettosi, ma ancora in ottime condizioni, nei supermercati più vicini. Oppure Ratatouille che permette di far scambiare i cibi che sapremo di non voler o poter consumare facendo consocere agli utenti nella stessa località cosa c’è nel proprio frigo e una volta concordato, scambiarsi gli alimenti.