“Quello lanciato da Calenda è stato il più classico dei sassi nello stagno, per vedere quali potessero essere le reazioni”. Così, un parlamentare dem che lo conosce bene, ha parlato dell’intervista rilasciata ieri a Repubblica dall’ex ministro dello Sviluppo economico, in cui paventa la possibilità di formare un nuovo partito “centrista”, che diventerebbe alleato del Pd. Dichiarazioni poi smentite (a metà) dallo stesso Calenda, che ha assicurato che non sarà mai il protagonista di una scissione, ma che, se il Pd glielo chiederà, si è detto disponibile a lavorare alla creazione di una “gamba liberaldemocratica”, nell’ottica di una coalizione che possa competere con la destra alle prossime elezioni politiche. Un’uscita, quella di ieri, con cui il neo parlamentare europeo del Pd ha voluto saggiare gli umori sia nel campo dell’attuale maggioranza dem fedele a Nicola Zingaretti, sia della minoranza renziana, sempre in procinto di far esplodere una nuova “guerra civile” nel partito.
Facciamo un piccolo passo indietro. Carlo Calenda è stato il candidato dem all’Europarlamento che ha raccolto più preferenze. Non in una circoscrizione qualsiasi, ma nel nord-est, il fortino leghista per definizione (esclusa l’Emilia-Romagna). Non solo, il Pd, nel nord-est, ha ottenuto un numero di voti maggiore rispetto alle elezioni politiche del 2018, anche in termini assoluti. È l’unica circoscrizione dove si è registrato questo incremento. Un dato sotto certi punti di vista clamoroso, dato che l’affluenza è stata più bassa di circa il 20 per cento rispetto a un anno fa. Un dato che difficilmente può essere riconducibile alla nuova leadership nazionale di Zingaretti, o almeno non solo ad essa. Determinante è stato il ruolo giocato da Calenda, un romano che ha scaldato i cuori dell’operoso (e spesso politicamente impermeabile ai forestieri) nord-est.
Quando basta per rafforzare nell’ex ministro l’idea che sia proprio lui l’uomo giusto per andare a scavare nelle parti più profonde del consenso di Salvini e invertire la tendenza. Tra gli industriali, i piccoli imprenditori, il ceto medio non solo del nord-est ma di tutta Italia, la campagna elettorale di Calenda ha fatto breccia. Di qui l’idea, che non è un inedito, di dare vita ad un polo liberaldemocratico, che vada ad occupare lo spazio immediatamente a destra del Pd: europeista, liberale nei diritti e liberista in economia, anti-populista e anti-sovranista. Ne aveva già parlato, tempo fa, uno dei principali mentori dello stesso Zingaretti, Goffredo Bettini, che immaginava proprio, come soluzione per le infinite diatribe del Pd, la creazione di due partiti distinti, che si riferissero a due elettorati distinti, per poi ritrovarsi dopo le elezioni. È per questo che, al di là delle dichiarazioni di facciata, l’uscita di Calenda non è arrivata come un fulmine a ciel sereno per la segreteria Zingaretti, ma è considerata parte di un ragionamento su cui costruire la proposta politica del futuro.
L’ex premier ha in mente un movimento egemonizzante, che si tenga le mani libere e che, perché no, finisca per erodere il consenso dello stesso Pd. Un movimento in cui lui, più di chiunque altro, giochi il ruolo di riferimento mediatico e politico
A proposito di futuro, sono diverse le variabili che potrebbero influire sulla nascita di questo nuovo soggetto. La prima è quella relativa alla durata del governo di Lega e Cinque Stelle. Se il Paese dovesse precipitare rapidamente verso le elezioni anticipate, difficilmente ci sarebbe il tempo per rendere questo progetto realtà. Al contrario, se si dovesse votare non prima di un anno, i tempi sarebbero più favorevoli. L’altra, grande, variabile è legata a Matteo Renzi. Che l’ex segretario non si senta più a casa nel Pd, non è un mistero. Che da mesi stia lavorando sotto traccia per capire quanto possa essere concreta (ed elettoralmente rilevante) la possibilità di dare vita ad una nuova formazione, è noto a tutti. Tra questi, anche a Calenda, che però non ha alcuna intenzione di fare il braccio armato del renzismo, colui che trasforma in realtà i sogni dell’ex rottamatore. Renzi, infatti, vede nel suo ex ministro l’uomo giusto per portare numeri (e finanziamenti) alla sua causa, il grimaldello giusto attorno al quale riunire gli scontenti centristi del Pd da una parte e di Forza Italia dall’altra, che sia in grado di cannibalizzare il consenso dei vari Più Europa e Italia in Comune, che lo aiuti a portare a compimento il suo sogno: dare vita ad una versione italiana della Republique En Marche di Macron, o della versione iniziale (prima della svolta a destra) di Ciudadanos.
Come si concilia tutto ciò con la leadership di Calenda? Molto male. I due condividono una visione moderata e liberaldemocratica della politica e del loro elettorato di riferimento, sono allergici a qualsiasi ipotesi di alleanza con il Movimento 5 Stelle, ma hanno una visione opposta del ruolo che dovrebbe avere il nuovo soggetto. L’Europarlamentare lo vede come parte integrante della coalizione di centrosinistra che sta provando a costruire Zingaretti, come partner indissolubilmente legato al Pd e al suo destino. L’ex premier ha in mente un movimento egemonizzante, che si tenga le mani libere e che, perché no, finisca per erodere il consenso dello stesso Pd. Un movimento in cui lui, più di chiunque altro, giochi il ruolo di riferimento mediatico e politico.
È quindi anche per mandare un chiaro messaggio ai renziani che ieri, nella celebre intervista a Repubblica, Calenda ha deciso di indicare in Paolo Gentilioni il nome giusto per il ruolo di leader della coalizione. Un nome fatto tutt’altro che casualmente, dato che, come noto, Renzi considera lo stesso Gentiloni poco più che un irriconoscente beneficiario della sua generosità politica. Guido io, era il messaggio. Cominciamo bene.