Pizza, mandolino e bamboccioni. Ogni Paese ha i suoi cliché e spesso si è parlato, in modo anche ingeneroso, dei giovani italiani mammoni che rimangono in casa con i genitori più a lungo. Ma il fenomeno è reale e a quanto pare in ascesa nonostante la ripresa dopo la grande crisi economica, e nonostante l’aumento dell’occupazione negli ultimi anni abbia interessato di più i 20enni che i 40enni. Secondo gli ultimi dati disponibili vivono con i genitori il 72,7% degli uomini e il 59,8% delle donne tra i 18 e i 34 anni. Negli anni 2000, quando già si parlava di queste statistiche, le percentuali erano di circa 5 punti inferiori. Dal 2011 il dato è aumentato.
La fascia più colpita è quella dei 25-34enni, un’età in cui in Europa normalmente si diventa autonomi dal punto di vita lavorativo ed esistenziale. Ma nel 2017 in Italia il 57,9% degli uomini in questa classe d’età vive ancora con mamma e papà. Erano il 51,4% nel 2011, e in calo rispetto al decennio precedente. Il calo però è stato bruscamente interrotto e la crisi ha rovsciato la tendenza. E le donne tra i 25 e 34 anni che vivono con i genitori sono il 40,6%. Un dato superiore a quello degli anni 2000, ma non così tanto come nel caso degli uomini.
Ed è questo il lato più interessante del fenomeno: il crescente gap tra uomini e donne. Con i primi, che già più “mammoni” delle seconde, tendono a diventarlo ancora di più. L’aumento delle differenze tra i generi è ancora più forte nella fascia dei 25-34enni. Lo stacco tra le percentuale di donne e di uomini di questa età che rimangono a vivere nella famiglia originale è di 17,3 punti. Erano 12,5 nel 2011. Nel caso dei 18-34enni si è passato da un gap tra i sessi del 10,6% nel 2011 a uno del 12,9% nel 2017.
Il problema sono gli uomini 30enni che si trattengono in casa con i genitori. Intendiamoci, in tutta Europa a rimanere nella famiglia originaria più a lungo sono i maschi, ma da nessuna parte c’è un divario così ampio tra uomini e donne come quello in Italia. Neanche in Spagna, dove nel 2017 era del 12,6%, un valore simile a quello di dieci anni fa. Eppure in Spagna la crisi ha colpito dal punto di vista occupazionale gli uomini ancora più che nel nostro Paese.
L’aspetto più interessante è come questo fenomeno si leghi alla disoccupazione. In Italia tra il 2004 e il 2009 nonostante un calo del tasso d’occupazione nel segmento cruciale degli uomini tra i 25 e i 29 anni, è diminuita anche la percentuale di maschi che rimanevano a vivere con i genitori. Dopo il 2009, con la recessione, e quindi l’accelerazione del calo occupazionale, la stessa percentuale aveva cominciato a crescere. Dopo il 2014 c’è stata la ripresa, ma allo stesso tempo un ulteriore aumento di chi rimaneva nella casa d’origine. L’esatto opposto di quanto accadeva negli anni 2000.
Leggendo i dati, la sensazione è che molti abbiano perso la speranza. Che non ci si fidi del lavoro trovato, spesso precario e malpagato, ma pur sempre lavoro. Un’occupazione che non basta a staccarsi da nido, come forse bastava un tempo. Certo, forse chi osserva queste dinamiche ha ancora in mente un mondo da “Fine della storia” in cui non conta più la cultura locale, la mentalità, l’identità, ma vince il determinismo economico. E quindi sopravvaluta i fattori economici. Un’intepretazione della realtà che ha mostra le proprie crepe dai primi anni 2000 in poi. Tanto è vero che vi sono molti Paesi in cui nonostante un tasso d’occupazione maschile ben più alto per i 25-29enni la percentuale di quanti rimangono a casa è ugualmente elevata, su valori analoghi a quelli italiani, nel Mediterraneo e a Est. Segno che la cultura locale conta. Che alcuni meccanismi da sempre esistiti hanno la propria importanza. Tra questi la tendenza delle donne a sposarsi e quindi a uscire di casa prima. Anche ora.
Tuttavia i maschi italiani sono gli ultimi nella classifica del tasso di occupazione maschile a questa età. Per invertire la tendenza bisogna far crescere le opportunità di lavoro per i 20enni e i 30enni. Molti di loro non se ne andranno di casa ugualmente, è loro diritto. Siamo in un’epoca in cui finalmente abbiamo capito che non è più il caso di sindacare sulle scelte di vita, su con chi si convive, e perché lo si fa. Ma almeno potremo spezzare la maledizione della dipendenza generazionale all’interno delle famiglie, in cui i più giovani, anche se più istruiti, devono aspettare una sorta di paghetta dalle pensioni dei genitori.