È esistita un’epoca d’oro del giornalismo italiano? Secondo questa mostra, Piccoli tasti, grandi firme: L’epoca d’oro del giornalismo italiano (1950-1990), allestita a Ivrea dal giornalista del Giornale Luigi Mascheroni, sì. E – chissà se è un caso o no – coincide con quel periodo in cui non esisteva internet e non c’erano i computer. E nemmeno i cellulari. Quarant’anni che vanno dal 1950 al 1990, cioè da quando l’Olivetti progetta la mitica Lettera 22 ai primi anni ’90, quando il giornalismo comincia a diventare computerizzato.
Altri tempi, senza dubbio. “Più belli? Più brutti?”, di sicuro erano segnati da “giornate più pesanti, con orari più lunghi e servizi più complicati”. Un mestiere faticoso ricompensato dalla creatività delle prime pagine, dalle idee originali, dai servizi “battaglieri, pensati e scritti benissimo” che, soprattutto, erano “venduti in centinaia di migliaia di copie”. Epoche in cui nascevano testate “rivoluzionarie”, anche solo per l’impostazione grafica, editoriale, ideologica. Oppure “anticonformiste e irriverenti”, ma tutte con un requisito essenziale, cioè “un livello eccezionale di scrittura”.
Lo dimostrano, per fare un breve florilegio della mostra, che espone immagini, fotografie, copertine passate alla storia – quella del Messaggero dopo l’Allunaggio è finita esposta al Moma – gli attacchi degli articoli scelti. Sia chiaro, è una selezione dei pezzi migliori delle firme migliori, cioè livelli altissimi. Si trova Dino Buzzati a parlare del Vajont, la Cederna che indugia sulle nuove mode salutiste (il check-up), Enzo Biagi sul disastro del Seveso e il classico, citatissimo inizio del reportage da Vigevano di Giorgio Bocca.
Forse non era il giornalismo migliore di sempre. Ma di fronte a queste cose è lecito provare un po’ di nostalgia.
Natura crudele, Dino Buzzati (Corriere della Sera, 11 ottobre 1963)
Stavolta per il giornalista che commenta non c’è compito da risolvere se si può, con il mestiere e con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile!
Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui. Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di vol- te che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente.
Cecàp, Camilla Cederna (L’Espresso, 26 agosto 1962)
“Mi sono fatto il cecáp, tu non ti fai il cecáp?, sto andando a farmi fare il cecáp”. È una parola di moda, è una cosa impor- tata dall’America e praticata dai previdenti, va bene farla due volte all’anno. Seguiamo dunque la signora un po’ pallida che alle nove del mattino esce per compiere questo rito, senza nemmeno aver bevuto il caffè, e non chiediamole cos’ha dentro le due bottigliette ben tappate e ben incartate che porta nella borsa (con due etichette diverse a seconda dell’ora).
Il male che non si vede, Enzo Biagi (Corriere della Sera, 26 luglio 1976)
Ha appena cessato di piovere. I camion dei carabinieri si muovono lenti nel fan- go. Il geometra del Comune tiene in mano la carta, segnata con righe rosse, o righe blu: zona A e zona B, c’è scritto. Vedo un gruppetto di case, degli orti, un pezzo di terra gialla non coltivata, un campo di granoturco. I soldati piantano dei paletti, stendono il filo spinato. Dei cartelli avvertono che non bisogna tocca- re nulla, neppure l’erba. Duecento perso- ne debbono sgomberare.
Mille fabbriche nessuna libreria, Giorgio Bocca (Il Giorno ,14 gennaio 1962)
Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scu- sa, non le ho viste. Di abitanti, cinquan- tasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di libre- rie neanche una. Non volevo crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n’era una in via del Popolo: se capitava un cliente, forestiero, il libraio lo sogguardava, con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un anno. Diciamo che il leggere non si concilia con il correre e qui, sotto la nebbia che esala dal Ticino, è un corre- re continuo e affannoso.
Baffo Natale con Angelo Olivetti, Giovannino Guareschi (Corrierino delle famiglie da Candido, 4 gennaio 1953)
Nel pomeriggio della Vigilia, mi prese la stanchezza e salii al primo piano per dormire un po’. Ma, invece di andare nella mia stanza, mi buttai sul letto del camerone vicino allo studiolo della Pasionaria. Mi addormentai subito ma, poco dopo, mi svegliarono le voci dei ragazzi: “Bisogna decidersi a preparare la lettera da mettergli sotto il piatto stasera” borbottò la Pasionaria. “Però è un bel fastidio”. “Ci tiene” osservò Albertino “e dobbiamo farla”. “La scrivi anche tu che sei già così grande?” s’informò la Pasionaria. “A una certa età, certe cose non si devono fare più”. “Lei lo conosce bene” affermo Albertino “e dice che se stasera non trova la lettera succederà una tragedia”.
Walesa lancia una nuova sfida, Oriana Fallaci (Corriere della Sera, 7 marzo 1981)
Breznev si accingeva a inaugurare il Ventiseiesimo congresso del PCUS e ad affermare che in Polonia i nemici del socialismo stanno tentando la controrivoluzione, minacciando i pilastri dello Stato, ma i comunisti polacchi possono contare sui loro amici e alleati, l’URSS non abbandonerà mai la Polonia socialista, quando Lech Walesa mi disse: “Noi non siamo ostili al governo Jaruzelski, intendiamo lasciarlo lavorare. Ma se fallisse, se non ce la facesse, se si dimettesse, allora dovrebbe essere Solidarnosc a governare. E io per primo dovrei prendere in mano la situazione”. Credendo di aver capito male, l’indomani chiesi di rivederlo e di confermarmi la frase. Walesa me la confermò tale quale, aggiungendo che si trattava di una eventualità fantastica ma che, come eventualità, possibilità, essa esisteva. Anzi, in quel caso, non ci sarebbe stata altra scelta. E questo fu l’avvio di un discorso che il leader di Solidarnosc non aveva mai compiutamente affrontato: il discorso sulla minaccia di un intervento sovietico.
Lungo la pista di Ho Chi-minh, Goffredo Parise
Prima di cominciare queste note di viag- gio va detto subito che il Laos assume oggi, dopo l’intervento americano in Cambogia, un’importanza strategica di primissimo piano nella dinamica delle forze comuniste in progressiva e vittoriosa avanzata nei territori d’Indocina. L’importanza è data dal fatto che il Laos è in questo momento, e sarà nell’immediato futuro, la sola via di rifornimento dei vietcong. Bloccata dalle operazioni in corso la rete di collegamenti che si con- centrava nelle estremità orientali della Cambogia, alimentata da nord e da sud, cioè dalla Cina e da Hanoi attraverso il Laos, e dal porto di Sihanoukville; di- strutti i depositi di viveri e munizioni lungo la frontiera, la pista di Ho Chi-min, che corre lungo il basso Laos a nord e a sud del 17° parallelo, rimane oggi la sola via di comunicazione con i luoghi di combattimento.
Peppìn Meazza era il fòlber, Gianni Brera
È morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato. Un chirurgo amico, Minolo Pizzagalli, gli aveva dovuto asportare mezzo pancreas e mal volentieri parlava, poi, della sua sorte più o meno vicina.