Ci sono volte in cui la sfera emotiva deve fare i conti con quella economica. E, per capirsi, il caso ponte Morandi e la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia è una di quelle. Le dichiarazioni di guerra congiunte di Di Maio e del ministro Toninelli alla società di proprietà della holding Atlantia, infatti, dovranno scontrarsi con un muro fatto di numeri e cifre imponenti, da cui difficilmente usciranno vittoriosi.
La tragedia rimane impossibile da oscurare, come del resto desta qualche perplessità quel 7% di rendita urlato dal Vicepremier pentastellato che la famiglia Benetton riceverebbe dalla concessione. Ma sul tavolo, per quanto ingombro di implicazioni morali, la posta in palio è di circa 20 miliardi, ovvero il valore di indennizzo che il governo dovrebbe sborsare per la revoca della concessione. In termini di finanza pubblica, lo Stato non ha soldi da investire per nuove costruzioni e ampliamenti, mentre in casa Atlantia la faccenda capitali è pura questione di accordi e investimenti programmati con i quali si punta a ottenere le proroghe e, di conseguenza, a fare cassa con i pedaggi.
Sotto un aspetto formale, la revoca della concessione ad Autostrade è legittima se sussistono gravi motivi, attraverso cui si annullerebbe il risarcimento previsto dalle clausole che tutelano la chiusura anticipata del contratto. Il “grave inadempimento” secondo cui la Relazione della commissione tecnica istituita dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli attaccherebbe la qualità della manutenzione di AspI, si infrange però sullo spettro giudiziario per cui, ad oggi, la società controllata non ha ancora incassato condanne per gli episodi genovesi. Peraltro, secondo un report di Mediobanca, nel caso di un iter amministrativo la tempistica assumerebbe un ritmo biblico.
Lo Stato ha poco potere contrattuale nei confronti dei concessionari e la revoca potrebbe aggiogare le scelte governative a deboli manovre: la ghigliottina ipotizzata per AspI spingerebbe gli investitori, solidali ai crismi del mercato libero e alla concorrenza tra privati, a credere che il settore autostradale italiano possa perdere la remuneratività di un tempo, e con essa il suo “fascino imprenditoriale”
La revoca infatti può essere avviata dal ministero, con una latenza per la risposta da parte di AspI di 90 giorni e, in caso di seconda notifica, di altri 60 giorni. Confermata la revoca, Autostrade potrebbe appellarsi alla Corte civile di Roma, successivamente al Consiglio di stato e per finire alla Corte di giustizia europea. Il risultato? Lo Stato ha poco potere contrattuale nei confronti dei concessionari e la revoca potrebbe aggiogare le scelte governative a deboli manovre: la ghigliottina ipotizzata per AspI spingerebbe gli investitori, solidali ai crismi del mercato libero e alla concorrenza tra privati, a credere che il settore autostradale italiano possa perdere la remuneratività di un tempo, e con essa il suo “fascino imprenditoriale”. Non è un caso se a ogni parola pronunciata dai vertici governativi, il titolo in borsa di Autostrade coli a picco. E non è un caso se la fronda leghista opti per un compromesso che coinvolga il salvataggio di Alitalia.
Sia chiaro: l’imprenditore a rischio zero non piace a nessuno. Autostrade per l’Italia è una società per azioni che, con Edizioni come suo maggiore azionista (a cui fa capo la famiglia Benetton), detiene il 50,01% di Autogrill e il diritto di gestione sul nostro territorio di circa 3.000 chilometri autostradali e degli aeroporti di Ciampino e Fiumicino. Si conta un giro di affari di 3,9 miliardi di ricavi nel 2017 con un margine lordo di 2,4 miliardi, non contando la partecipazione negli Aeroporti di Roma con il quale il fatturato raggiunge quota 6 miliardi. A questo si deve aggiungere il fatto che le concessioni hanno scadenza prevista per il 2042, dopo il via libera da parte dell’Antitrust dell’Unione Europea dello scorso maggio 2018. Proprio per questo, il calo di investimenti sulle infrastrutture dai 232 milioni del primo semestre del 2017 ai 197 milioni dello stesso periodo del 2018, , monitorato dall’Osservatorio Nazionale Liberalizzazioni e Trasporti, desta qualche perplessità. Come è difficile ignorare la cifra versata allo Stato da Autostrade come oneri concessori nell’ultimo quinquennio: vale a dire “soli” 453 milioni di euro.
Ad Alitalia servono 300 milioni per completare la Newco, ovvero il 40% del capitale, e la holding dei Benetton, non proprio casualmente, possiede Aeroporto di Roma, dove la compagnia di bandiera vale il 29% dei ricavi aeronautici e porta con sé il 40% del traffico passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino
Dalle parole di Luigi Di Maio, la bilancia pentastelllata vede da una parte il mega indennizzo e dall’altra uno stop alle concessioni senza ripercussioni con lo sblocco della partita a impatto zero e autostrade gratis per tutti, come in Germania e Usa. Improbabile e fuori dagli schemi ministeriali – che per giunta prevedono modifiche allo statuto dei pedaggi, considerati dall’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori (Aiscat) “un atto blocca-cantieri che porterà al fermo degli investimenti programmati” -, la soluzione più papabile sembra invece quella degli inquilini di Palazzo Chigi. Ad Alitalia servono 300 milioni per completare la Newco, ovvero il 40% del capitale e la holding dei Benetton, non proprio casualmente, possiede Aeroporto di Roma, dove la compagnia di bandiera vale il 29% dei ricavi aeronautici e porta con sé il 40% del traffico passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino. La Lega vede dunque di buon occhio la mossa, quadratura perfetta per salvare la compagnia nazionale e chiudere la querelle sul Ponte Morandi. Infine, con Alitalia ben saldo negli aeroporti romani, Atlantia metterebbe al sicuro una quota pesante dei propri ricavi.
Aggiustando il tiro e lo spessore di alcuni dettagli, l’accordo, salvo tesoretti nascosti o fondi aurei per la revoca, sarà accolto da entrambi le parti. Ultimo dettaglio: i sindacati Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti sono preoccupati che uno spezzettamento delle concessioni secondo il criterio di maggiore autonomia regionale minerebbe alle clausole basilari di salvaguardia occupazionale. Creando, se possibile, ulteriori disastri.