Nei giorni scorsi sono stati presentati emendamenti al cosiddetto decreto sicurezza bis (d.l. n. 53/2019), che inaspriscono le conseguenze della violazione del divieto interministeriale di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale: la confisca immediata – e non dopo la reiterazione del reato, come previsto dal testo originario – dell’imbarcazione; inoltre, l’aumento delle sanzioni (dai 150 mila euro fino ad un milione di euro) rispetto alle somme previste in precedenza (da 10 mila a 50 mila euro).
In questo modo, sembra volersi rafforzare il tentativo di “criminalizzazione” per via normativa dei soggetti – per lo più navi facenti capo a ONG – che effettuano salvataggi di stranieri irregolari: come già spiegato in articoli precedenti, si tratta di una sorta di “presunzione di colpevolezza” per cui tali soggetti sono reputati automaticamente colpevoli del reato di traffico di migranti, previsto dal Testo Unico sull’immigrazione (art. 12 d.lgs. n. 286/98). Ciò in base all’assunto che il soccorso sia in realtà una fase di un più ampio disegno “criminoso”: vale a dire il preventivato e intenzionale trasporto di tali persone per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale. Il transito delle navi nelle acque italiane non sarebbe pertanto “inoffensivo” e, di conseguenza, può essere vietato con il suddetto provvedimento interministeriale.
Gli emendamenti citati dimostrano che l’intento sopra indicato non è stato scalfito dall’ordinanza della giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento riguardante Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3. In tale pronuncia, la giudice ha affermato che il divieto del ministro dell’Interno (di concerto con quello dei Trasporti e della Marina) non può riguardare ipotesi di «salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio». In queste ipotesi, il divieto contrasta non solo con convenzioni internazionali, ma con l’obbligo di cui al T.U. sull’immigrazione «di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi», dello straniero irregolare «giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare». Rackete, quindi, ha «agito in adempimento di un dovere», che non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma comporta il loro sbarco in un “porto sicuro”.
C’è una linea di continuità fra il governo precedente e quello attuale: svolgere un’azione deterrente nei confronti delle navi di soccorso, al fine di evitare lo sbarco di nuovi migranti
Eppure, come detto, permane – anzi viene rafforzata – l’impostazione normativa che riconduce l’attività delle imbarcazioni di salvataggio di migranti a una fattispecie di reato. Data la gravità di tale presunzione, può essere utile capire come sia stato possibile arrivare a questo punto. La strada sembra essere stata aperta dal “Codice di condotta per le ONG impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare” (cosiddetto Codice Minniti) al quale, nel 2017, erano state invitate ad aderire tutte le ONG operanti nel Mediterraneo.
Tale Codice, a differenza del decreto sicurezza bis, era privo di efficacia cogente, essendo non un atto normativo, ma un complesso di impegni sottoscritti dalle ONG firmatarie. Tuttavia, esso presenta un denominatore comune alla recente normativa, il quale segna una linea di continuità fra il governo precedente e quello attuale: svolgere un’azione deterrente nei confronti delle navi di soccorso, al fine di evitare lo sbarco di nuovi migranti. Tale fine – di cui vi è traccia anche in notizie riportate all’epoca circa l’ipotesi di chiusura dei porti – trova riscontro in alcune parti del Codice stesso, che – alla stregua di quelle del decreto Salvini bis – hanno destato dubbi in punto di diritto.
Come spiegato dalla professoressa Papanicolopulu all’epoca della sottoscrizione del Codice, «alcune delle sue disposizioni sembrano andare contro gli obblighi internazionali degli Stati e dei comandanti in materia di salvataggio». In particolare, il Codice richiedeva alle ONG di impegnarsi «a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata». Questa regola pare, da un lato, comprimere illegalmente il diritto di passaggio inoffensivo di cui godono tutte le navi nel mare territoriale altrui, incluse le ONG che svolgono operazioni di salvataggio; dall’altro lato, impedire alle navi di stazionare in una certa porzione di mare al fine di prestare soccorso, in contrasto con quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, ai sensi della quale «la fermata e l’ancoraggio» nel mare territoriale sono consentiti, tra l’altro, quando «finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà».
In altri termini, il governo precedente non solo aveva adottato un Codice volto a limitare la portata delle operazioni di salvataggio da parte delle ONG, ma aveva affidato alla Libia i soccorsi e, quindi, il successivo sbarco dei naufraghi nei suoi porti, nonostante fossero già noti i crimini compiuti nei campi di detenzione libici
Il parallelismo con il decreto sicurezza bis, anche per quanto esposto in un articolo precedente, appare palese, nonostante il Codice non si spingesse a vietare l’ingresso delle navi delle ONG in acque italiane, puntando piuttosto a evitare che esse entrassero nel mare libico, prendessero a bordo migranti e li portassero in Italia. Insomma, la sostanza è la stessa. Ma non è tutto. Un altro degli impegni del Codice Minniti, cioè «non trasferire le persone soccorse su altre navi» salvo autorizzazione, è assimilabile al disposto di un emendamento presentato al decreto sicurezza bis, poi non passato. Al riguardo, Papanicolopulu osservava che tale limitazione «potrebbe andare contro gli obblighi che gravano sui comandanti di mettere al sicuro le persone soccorse». La professoressa notava, in conclusione, come le disposizioni del Codice sembrassero «perseguire il fine pratico di “intimorire” le ONG, che di conseguenza potrebbero diminuire i propri sforzi in materia di ricerca e soccorso»: «fine pratico» che – lo si sottolinea ancora una volta – è comune al decreto Salvini bis, sia pur con le differenze rilevate.
A tutto ciò va aggiunta una considerazione ulteriore. Il suddetto impegno richiesto alle ONG di non entrare nelle acque territoriali libiche, di cui al Codice Minniti, presupponeva da parte dell’Italia il riconoscimento di una zona SAR (Search and Rescue) – attestata poi ufficialmente dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) nel giugno 2018 – nella quale la Libia avesse competenza a svolgere operazioni di soccorso. E pochi mesi prima del Codice l’Italia aveva firmato un Memorandum d’intesa con la Libia, contenente l’impegno da parte del governo (presidente del Consiglio Gentiloni) di fornire supporto tecnico alla guardia costiera libica, proprio in base al riconoscimento di tale zona SAR.
Tuttavia, non solo il citato Memorandum non è giuridicamente vincolante, in quanto non ratificato dal Parlamento (art. 80 Cost.). Ma soprattutto – rilievo ben più grave – vi erano evidenze circa le gravi violazioni dei diritti umani subite dai migranti in Libia «anteriori alla stipula del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e del successivo Codice di condotta» (F. Vassallo Paleologo). In altri termini, il governo precedente non solo aveva adottato un Codice volto a limitare la portata delle operazioni di salvataggio da parte delle ONG, ma aveva affidato alla Libia i soccorsi e, quindi, il successivo sbarco dei naufraghi nei suoi porti, nonostante fossero già noti i crimini compiuti nei campi di detenzione libici. Il filo conduttore che unisce politiche passate e presenti in tema di immigrazione appare evidente: ridurre il ruolo delle navi delle ONG, a qualunque costo, anche in termini di vite umane. Infine, non a caso, a partire dell’adozione del Codice Minniti, le attività delle ONG sono state oggetto di «una violenta criminalizzazione», con «con un irreversibile danno di immagine per queste organizzazioni». Ecco spiegato come si è arrivati al punto attuale.
Non serve aggiungere altro, salvo che la competizione tra il governo precedente e il governo in corso circa quello che ha maggiormente ridotto gli sbarchi sembra non solo poco meritoria, ma un vero e proprio assurdo: in entrambi i casi, gli strumenti utilizzati per ottenere il risultato non possono essere oggetto di vanto.