Oltre la modaStoria, rito, marchio: i mille (e uno) significati dei tatuaggi

Storicamente, il tatuaggio è ben più di un semplice accessorio alla moda. Da quelli dei lupi di mare a quelli incisi sugli avambracci degli ebrei nei campi di concentramento, i tatuaggi spesso hanno raccontato la storia di una persona, identificandola

Photo by Pagie Page on Unsplash

Il tatuaggio attraversa secoli e valica confini. Dalle comunità tribali passa alle società industrializzate senza tappe intermedie. La carne del corpo occidentale lo trova al suo posto, dov’è sempre stato, e senza sforzo vi aderisce perfettamente. Due mondi s’incontrano ma nessuno di essi sa chi è l’altro. Tuttavia trattare il tatuaggio semplicemente come un accessorio alla moda o liquidare l’argomento con un atteggiamento blasé significa trascurarne il senso e rimanere sordi all’appello della contemporaneità.

Al suo esordio il tatuaggio parlava di un corpo che giaceva in un misterioso silenzio. Quel segno, dopotutto, diceva molto del corpo che l’accoglieva e lo custodiva. Null’altro era voce se non quel graffito inciso nella carne. Di un corpo muto, insomma, il tatuaggio era la parola: del lupo di mare raccontava le avventure, del reietto la disperazione, della prostituta dichiarava l’indissolubile appartenenza a un lenone. Persino il numero di matricola tatuato sull’avambraccio di Sol Nazerman – l’uomo del banco dei pegni scampato all’Olocausto nel film di Lumet – fa capolino dal polsino della camicia per urlare al mondo la barbarie e l’inferno dei campi di concentramento.

Il marchio a fuoco che lo schiavo si portava addosso come una croce non era la sgargiante lettera scarlatta che Hawthorne fece indossare con vergogna alla sventurata protagonista del suo romanzo (nessuna condanna per adulterio avrebbe potuto imporre un segno imperituro come quello di un tatuaggio), ma anch’esso, infine, era segno di proprietà e, allo stesso tempo, equivaleva a battere moneta.

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