È stato convertito anche il decreto sicurezza bis, con la blindatura del testo mediante il voto di fiducia, che ha reso ancora una volta pressoché inutile il ruolo del Parlamento, se non per il fatto di consentire la durata dell’attuale governo. Era già stata rilevata l’infondatezza del ricorso a un decreto-legge – provvedimento basato su “necessità e urgenza” – a fronte di una oggettiva e duratura diminuzione degli sbarchi, quindi del venir meno dell’emergenza connessa; né c’era “necessità e urgenza” di evitare il cosiddetto “pull factor”, essendo ormai dimostrato che non esiste, poiché la presenza di navi delle ONG al largo delle coste dei Paesi da cui la gente fugge non incentiva le partenze. Era stata pure evidenziata l’assenza di omogeneità nel contenuto del decreto-legge, requisito che la Consulta ribadisce da tempo. Peraltro, questo provvedimento – così come il primo decreto sicurezza, convertito in legge nel dicembre scorso – accorpando in un unico testo il tema della sicurezza e quello dell’immigrazione, etichetta ancora una volta il migrante come persona pericolosa.
Ma il più grave “vulnus” allo stato di diritto della disciplina in discorso è rappresentato da una sorta di presunzione di colpevolezza, per cui il soccorso a naufraghi privi del permesso di soggiornare in Italia è considerato una fase del preventivato e intenzionale disegno teso a favorirne l’ingresso illegale nel Paese (art. 12 del T.U. sull’immigrazione), o comunque tale da mettere a rischio “ordine e sicurezza pubblica”: ciò legittima il ministro dell’Interno, di concerto con quelli della Difesa e dei Trasporti, a vietare l’ingresso, il transito o la sosta nel mare territoriale delle navi che li trasportano. A nulla è valso il fatto che il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, Luigi Patronaggio, abbia di recente ribadito l’insussistenza di tale assunto, dato che non risultano contatti preventivi tra trafficanti libici e ONG che operano salvataggi in mare: il ministro si è arrogato comunque il diritto di valutare come “non inoffensivo” (art. 19, c. 2, lett. g, convenzione Montego Bay) il passaggio in mare delle navi con migranti irregolari a bordo – valutazione che spetterebbe all’autorità giudiziaria – e quindi di vietarlo. Peraltro, potrebbe trattarsi di persone aventi diritto a protezione internazionale, circostanza accertabile dopo la loro identificazione, che può avvenire solo in appositi centri sulla terra ferma – come previsto dall’art. 10-ter del T.U. sull’immigrazione e ribadito altresì dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – non a bordo di una nave.
Ci sarà inevitabile ricorso ai giudici per analizzare le circostanze di ogni specifico caso e verificare le responsabilità di chi ne è stato attore
Quali saranno le conseguenze della conversione in legge del decreto sicurezza bis? Innanzitutto, un inevitabile ricorso ai giudici per analizzare le circostanze di ogni specifico caso e verificare le responsabilità di chi ne è stato attore. Ciò discende dal fatto che, come già esposto, la normativa in discorso trova limiti in fonti di rango superiore rispetto alla legge ordinaria dello Stato (le convenzioni internazionali Montego Bay, Solas e Sar): se in ipotesi particolari è consentita anche la chiusura delle acque territoriali, in ogni caso le disposizioni internazionali sanciscono il dovere di salvare vite umane in mare. Ne deriverà che, ogni volta in cui il ministro dell’Interno vieterà l’approdo in un porto – cosa che sta accadendo sistematicamente in base alla presunzione di colpevolezza di cui si è detto – rischia di essere necessario l’intervento giudiziale per accertare in concreto se il comandante della nave abbia colpevolmente violato il divieto del ministro ovvero abbia doverosamente agito nel rispetto delle norme che impongono il soccorso in mare; e se la scelta di approdare in un certo “porto sicuro” sia avvenuta a seguito di una valutazione corretta. In altri termini, chi effettua un salvataggio rischia di dover dimostrare di aver operato in conformità alle regole, dato il meccanismo del decreto sicurezza bis che porta al capovolgimento del suddetto principio di non colpevolezza. Tale meccanismo è risultato già evidente nella vicenda della Sea Watch 3. In quel caso, la giudice per le indagini preliminari del tribunale di Agrigento ha reputato che la comandante Rackete avesse «agito in adempimento di un dovere (…) di salvataggio in mare», che «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al (…) porto sicuro»; e che il divieto interministeriale non possa reputarsi legittimo in una ipotesi «di rischio di naufragio», in quanto il «principio della libertà degli stati di regolare i flussi di ingresso nel suo territorio nazionale (espressione di sovranità)» trova limiti derivanti dalla «adesione ai trattati internazionali» tra i quali, in particolare, il «dovere di pronto soccorso alle navi in difficoltà e di soccorso ai naufraghi e l’obbligo, in capo alle autorità statali, di soccorrere e fornire prima assistenza, allo straniero che abbia fatto ingresso, anche non regolare, nel territorio dello Stato». Tale obbligo, peraltro, è previsto non solo dalle convenzioni internazionali, ma anche dal citato art. 10-ter del T.U. sull’immigrazione.
Conseguenza ulteriore della inevitabile necessità di verificare ogni volta i fatti in via giudiziale, come già avvenuto per la Sea Watch 3, sarà una situazione di incertezza del diritto, dato che le circostanze dello specifico caso concreto dovranno essere oggetto di indagine e i relativi risultati potranno essere diversi. A ciò si aggiunga che l’invasivo potere di divieto, conferito al ministro dell’Interno dal decreto convertito, potrà consentigli di continuare a usare i migranti tenuti in mare come strumento di “ricatto” verso i Paesi europei, affinché li accolgano in deroga ai criteri fissati dal Regolamento di Dublino: ciò eviterà al ministro stesso di partecipare ai vertici europei ove si discutono modifiche a tale Regolamento – le quali peraltro vanno nel medesimo senso che egli mira ad ottenere con il “ricatto” – e gli consentirà così di amplificare propaganda e consensi. Per non parlare del fatto che la concentrazione delle competenze in materia di immigrazione in capo al titolare del Viminale, rafforzata dal provvedimento normativo in commento – sia pur apparentemente temperata dal ruolo dei ministri cui spetta co-firmare il divieto di entrata nelle acque territoriali — ha l’effetto di ridurre un fenomeno epocale come le migrazioni a un problema di ordine pubblico e sicurezza.
Ogni volta in cui il ministro dell’Interno vieterà l’approdo in un porto – cosa che sta accadendo sistematicamente in base alla presunzione di colpevolezza di cui si è detto – rischia di essere necessario l’intervento giudiziale per accertare in concreto se il comandante della nave abbia colpevolmente violato il divieto del ministro
La conversione in legge del decreto sicurezza bis ha anche comportato l’inasprimento delle sanzioni a carico di chi opera salvataggi in mare di migrati irregolari violando il divieto di accedere nelle acque territoriali: si applicherà una multa che va da un minimo di 250 mila euro a un massimo di 1 milione di euro (nel testo originario era da 10 a 50 mila euro); il capitano della nave potrà essere immediatamente arrestato, se il suo comportamento configuri resistenza o violenza contro una nave da guerra; come sanzione accessoria, la sua imbarcazione potrà essere immediatamente confiscata (nella versione iniziale la confisca avveniva solo dopo la reiterazione del reato), previo sequestro cautelare, assegnata “dal prefetto in custodia agli organi di polizia, alle Capitanerie di porto o alla Marina militare ovvero ad altre amministrazioni dello Stato che ne facciano richiesta” e, se non utilizzata dallo Stato o venduta, potrà essere distrutta dopo che la confisca sia divenuta inoppugnabile.
Dunque, chi si imbatta in una barca di naufraghi stranieri che necessitano di assistenza sa già preventivamente che, se adempirà al dovere di soccorso, andrà incontro a tutto questo: la deterrenza dai salvataggi che le sanzioni particolarmente gravose mirano a esercitare costituisce un vero e proprio paradosso. La tensione connessa alle situazioni che in concreto potranno verificarsi porterà a un corto circuito nella corretta valutazione dei fatti da parte dell’opinione pubblica e alla ormai usuale polarizzazione che continua causare fratture nel vivere sociale. Sorge il sospetto che il fine ultimo del provvedimento sia proprio questo.