Incendi in Amazzonia, Brexit, guerra dei dazi, dossier nucleare iraniano, recessione tedesca, separatismo e guerra civile in Ucraina, rapporti da ricucire con la Russia. Al G7 di Biarritz (e forse prossimo G8 se sarà riammesso Putin) c’erano tante e tali questioni aperte e complicate da far tremare i polsi anche ai leader più responsabili o più navigati, sempre che le due qualità possano essere attribuite a tutti i partecipanti.
Pur rimanendo piuttosto distanti sensibilità e posizioni, qualche parola di buona volontà è stata spesa e – grazie sopratutto al dinamismo di Macron – alle parole è seguito qualche passo sul disastro in Amazzonia, sul dossier iraniano e sul rapporto con la Russia, ma poco o nulla sulla guerra dei dazi e sui rischi di recessione internazionale.
L’Europa, come sempre in ordine sparso, sembra una sonnambula incapace di prendere atto, ossia di svegliarsi, della drammatica spirale determinata dalla combinazione infernale di tutto ciò che è basso – la crescita, l’inflazione, i tassi, gli investimenti pubblici, la demografia, l’occupazione, i prezzi al consumo – con tutto ciò che non dovrebbe essere alto – la disoccupazione giovanile, l’invecchiamento, i prezzi degli immobili, le tasse, il debito pubblico, il rigurgito sovranista, l‘ euroscettismo nelle due forme : quello ideo-logico populista e quello logico di delusione.
Una combinazione che la recessione tedesca (aggravata dalla crisi dell’industria, dal calo delle esportazioni, dal ritardo degli investimenti pubblici e dalla rigida fiscalità) può soltanto contribuire a fare esplodere in modo devastante.
L’Europa, come sempre in ordine sparso, sembra una sonnambula incapace di prendere atto, ossia di svegliarsi, della drammatica spirale
Ed è forse per la vastità dei problemi da mal di testa che i grandi della terra hanno evitato di mettere sul tavolo altre due bombe ad orologeria, peraltro con il timer già innestato da settimane : l’autonomia del Kashmir che ha fatto rialzare ai massimi livelli la tensione fra India e Pakistan e le gigantesche manifestazioni di protesta a Hong Kong cui il governo di Pechino risponde con la mano pesante.
India e Pakistan, due potenze i cui rapporti sono sempre stati complicati, divise da questioni religiose, territoriali, geo strategiche, sono entrambe in possesso della bomba atomica e dispongono di un notevole arsenale militare. Il materiale umano in entrambe le società è altamente infiammabile per effetto di storiche rivalità, conflitti etnici, odio religioso, gruppi terroristici alla manovra. Basterebbe un incidente un po’ più grave dei precedenti o una parola di troppo da entrambe le parti a portare i due Paesi oltre il ciglio del burrone su cui sono seduti.
Quanto a Hong Kong, nessuno sa prevedere quale possa essere lo sbocco della crisi, a trent’anni da Tienanmen e con l’avvicinarsi del Settantesimo della Repubblica popolare. Una data, il primo di ottobre, che il presidente Xi non può permettersi di celebrare con immagini di sangue nelle strade o, al contrario, d’impotenza di fronte alle catene umane con gli ombrelli aperti. Ma Xi, cresciuto nelle logiche leniniste del partito, ha già dimostrato la propria determinazione contro dissenso e corruzione e lo sta dimostrando oggi, con la mano pesante della polizia, la mobilitazione dell’esercito, l‘intossicazione sistematica di fake news per screditare leader e ragioni della protesta, iniziata – è bene ricordarlo – contro la legge che prevede l’estradizione in Cina di cittadini inquisiti a Hong Kong e poi allargatasi in una domanda più generale di diritti e democrazia. Al solito, il potere di qualsiasi tipo e colore evita di guardarsi dentro e accusa poteri esterni, complotti, interessi stranieri.
Forse per la vastità dei problemi da mal di testa che i grandi della terra hanno evitato di mettere sul tavolo altre due bombe: Kashmir e Hong Kong
Tutti i nodi irrisolti nella particolare evoluzione della ex colonia sono venuti al pettine e certamente la prova di forza non aiuta a mettere sul piatto della bilancia diritti e interessi, ugualmente legittimi, delle parti in causa, 22 anni dopo la restituzione della città alla Cina. Per i cittadini di Hong Kong, e sopratutto per le giovani generazioni, la Cina è un gigante incombente ed egoista, un padre padrone che tenta di azzerare i residui spazi di autonomia e libertà civili, utilizzando la ex colonia soltanto come piattaforma finanziaria che peraltro convoglia nella madre patria un volume impressionante di investimenti. I giovani non si sentono cinesi, ma “hongkonger”, e la definizione va molto oltre una semplice questione di identità culturale : vogliono costruire il proprio futuro e tenersi stretto ciò che hanno già realizzato, sentirsi protagonisti e partner di una grande economia, non soltanto colletti bianchi eterodiretti.
Per la Cina è in gioco, oltre alla dimensione degli interessi finanziari, la tenuta di un sistema statuale che da un lato non può permettersi di perdere credibilità e rispetto agli occhi del mondo e, dall’altro lato, non può tollerare che piccole o grandi crepe vengano periodicamente ad aprirsi, dal separatismo religioso dello Xinjiang alle aspirazioni del Tibet alla storica questione di Taiwan. “Se noi bruciamo, bruceremo con voi”, è uno degli slogan più emblematici in queste settimane di tensione. Non si arriverà tanto, ma il prezzo della pacificazione, con le buone o con le cattive, sarà comunque alto. E se la Cina brucia, anche solo un pochino, farà più danni dell’Amazzonia.