Paradigmatico, oltre che autolesionista, è stato l’ennesimo rinvio per l’adesione all’Unione Europea di Albania e Macedonia del Nord. A costringere i due paesi ad aspettare ancora per coronare il loro sogno europeo è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che ha posto il veto sia sull’ingresso di Skopje, unico Stato a farlo, sia su quello di Tirana, insieme a Danimarca, Spagna e Paesi Bassi. A frenare Monsieur le Président c’è soprattutto la freddezza dell’opinione pubblica francese e il timore di perdere ulteriore consenso a cinque mesi dalle elezioni locali del 2020, che tracceranno inevitabilmente un bilancio di metà mandato per La République en Marche e il suo leader. Quello che tutti dimenticano però sono le conseguenze che tale decisione può avere sull’intera regione dei Balcani. Non rispettare le promesse fatte ad Albania e Macedonia del Nord, che hanno fatto e continuano a fare il massimo per entrare nel consesso europeo, può dare un segnale sbagliato. Non solo ai politici locali, che rischiano di vedersi presto scavalcati da nazionalisti senza scrupoli, ma anche a un’intera regione. Che a buon diritto si potrà sentire delusa, ferita, tradita.
«Da ieri le aspettative sono fortemente ridimensionate, sebbene sia uno stallo temporaneo che passerà attraverso altre procedure e altri negoziati», sostiene Giorgio Fruscione dell’ISPI. Ciò che colpisce è soprattutto il tradimento della promessa fatta anni prima da parte degli europei. «Sin dal vertice di Salonicco del 2003 l’Unione Europea si è impegnata nella regione balcanica. Da anni entrambi i Paesi si sono impegnati fattivamente per entrare in Europa, promuovendo una serie di riforme politiche e interne molto importanti. Con un sacrificio da parte dei due Stati non indifferente».
L’impegno più gravoso è senza dubbio toccato ai politici macedoni, che sono dovuti scendere a patti col vicino greco per cambiare il nome del proprio Stato
L’impegno più gravoso è senza dubbio toccato ai politici macedoni, che sono dovuti scendere a patti col vicino greco per cambiare il nome del proprio Stato. Tra le due repubbliche balcaniche infatti c’era una decennale contesa sulla definizione di “Macedonia”, risoltasi solo con lo scorso luglio con gli accordi di Prespa. Eppure, non è bastato: gli europei chiedono ancora uno sforzo maggiore, soprattutto in settori come giustizia e agricoltura. «L’Europa è costata una crisi politica in Macedonia del Nord, è innegabile la buona fede europeista dei politici macedoni, in primis del presidente Stevo Pendarovski e del primo ministro Zoran Zaev che hanno posto come obiettivo essenziale per la giovane repubblica l’ingresso nell’Unione, cercando accordi con tutti quegli Stati che erano contrari, come la Grecia appunto e la Bulgaria» Per il momento però a Skopje dovranno rassegnarsi a mantenere lo status di paese candidato, in vigore dal lontano 2004.
Una storia simile c’è anche a Tirana. Anche qui ci sono stati sforzi importanti per entrare a Bruxelles, che però sono stati giudicati insufficienti. «In Albania il governo socialista di Edi Rama si è molto impegnato per far fronte alle richieste europee. Tuttavia, ci sono ancora alcuni problemi che il governo non ha affrontato». Uno di questi è la giustizia, vista l’assenza di una Corte costituzionale nel paese delle Aquile, e poi ci sono la lotta alla corruzione e al crimine organizzato. «Il timore degli europei è di agevolare tanto l’infiltrazione mafiosa di questi gruppi nel contesto europeo quanto i loro affari, come il traffico di marijuana».
E adesso che succederà? «Le tensioni interne nei due paesi e geopolitiche per l’intera regione saranno inevitabili»
E adesso che succederà? «Le tensioni interne e geopolitiche per l’intera regione saranno inevitabili». In Macedonia del Nord il no del Consiglio Europeo ha già causato un piccolo terremoto politico. Si parla di possibili dimissioni del primo ministro Zoran Zaev. «Il no del Consiglio Europeo rischia di essere la causa di una possibile instabilità politica nel paese. Il rifiuto di Bruxelles sarà sicuramente l’occasione per l’opposizione di denunciare l’inutilità degli sforzi governativi per entrare in Europa, in primis il cambio del nome». Nuove tensioni nazionalistiche potrebbero quindi nascere a Skopje, così come a Tirana. «Il partito democratico di centrodestra potrebbe tornare in piazza contro il governo di Rama, come già fatto nei primi mesi del 2019. Pur non essendo una mera questione politica il paese potrebbe risentire il colpo e spaccarsi ancora di più sul no del Consiglio Europeo». Un colpo inferto anche ai sogni di tutta la regione balcanica. «Tutti gli Stati possono cadere dentro un vortice di incertezza». Un esempio? «Serbia e Kosovo, che stanno cercando di trovare una soluzione politica ai loro problemi e guardano allo stesso tempo all’Europa, rappresentano perfettamente il possibile rischio che corre la prossima Commissione di Ursula Von der Leyen. Come possono gli europei chiedere a questi due paesi di trovare una soluzione ai loro dissidi se poi li lasciano fuori dall’Unione?». Senza credibilità non si va lontano. Altro che sogno: il vero incubo adesso è trovare un’Europa sempre più piccola, impaurita ed arroccata su se stessa.