Percorrendo il nord Italia, da Torino a Udine, incontriamo almeno una decina di aeroporti, alcuni dei quali dedicati ai voli low cost e solo uno, Malpensa, che si propone come un hub internazionale. Fenomeno analogo è quello delle fiere d’arte moderna e contemporanea, davvero tante, che non scendono sotto la linea gotica sia perché il mercato è concentrato nelle principali regioni settentrionali, sia perché i collezionisti del mezzogiorno amano viaggiare e fare shopping in giro. Da ovest a est, dunque: Artissima (Torino), Miart (Milano), Art Verona, Arte Fiera (Bologna), solo le principali, ben di più se ne registrano nella fascia secondaria e anche sul mercato più basso, cui si aggiungono i numerosi eventi collaterali che animano, come accade all’estero, le cosiddette main section. Dall’autunno alla primavera le fiere d’arte si trasformano in festival proprio come le manifestazioni culturali di piazza, ricche di mostre, talk, eventi, performance. E il pubblico, non solo quello specialistico, accorre felice, anche se non necessariamente è disposto a mettere mano al portafoglio.
Detta così, sembrerebbe in piena salute il mercato dell’arte in Italia. E invece no, gli affari languono, si vendono solo le opere importanti e soprattutto agli stranieri. Le centinaia di gallerie selezionate alle fiere che contano attraverso severe application, nei giorni di apertura normale risultano vuote e infatti in molti lavorano ormai solo esclusivamente per l’evento commerciale.
I giovani usciti dalle Accademie o con altre formazioni non sono per niente attratti da quel sistema per cui si era costretti a una lunga gavetta nella speranza di approdare a una galleria che conta
Nell’ultimo decennio il panorama è alquanto cambiato e le gallerie hanno perso la centralità. Negli anni ’90 si vendeva di tutto, giovani professionisti potevano spendere diversi milioni di lire per acquistare opere d’arte come vero e proprio status symbol di un miglioramento culturale oltre che sociale. Persino l’arrivo dell’euro e lo choc provocato dal crollo delle Twin Towers non provocarono significativi rallentamenti sul mercato, che rimase vivace almeno fino al 2008. La crisi, non più fatto contingente ma strutturale, ha cambiato le carte in tavola. Chi ha denaro corre dietro ai nomi di sicuro effetto, oggetto di speculazioni spesso confezionate a tavolino. Spazzato via il mercato medio, pressoché dimenticata la generazione di mezzo, i giovani per sopravvivere o forse anche solo per esistere hanno cambiato radicalmente abitudini. E il panorama che si presenta oggi nell’arte italiana torna a essere interessante solo se si è disposti a guardare fenomeni nuovi e lasciare da parte il troppo consolidato.
In pochi si presenterebbero da un gallerista con il portfolio sotto il braccio come si usava un tempo. I giovani usciti dalle Accademie o con altre formazioni non sono per niente attratti da quel sistema per cui si era costretti a una lunga gavetta nella speranza di approdare a una galleria che conta. In Italia ce ne sono ben poche in grado di cambiare il destino di un ragazzo, tanto vale crearsi da soli i propri spazi con inventiva e senso del rischio.
I ragazzi nati negli anni ’90 si stanno reinventando un modus alternativo la cui energia sta facendo ripartire l’asfittico mercato dell’arte
La mappa dell’arte italiana giovane non può prescindere da questi luoghi indipendenti, gestiti dagli artisti stessi in piccoli gruppi affini tra loro; il mercato non è prioritario, il supporto del critico conta poco o nulla e il collezionista sarà attratto semmai da quel senso di “new thing” che si respira in uno spazio che si muove senza condizionamenti. Ce ne sono ovunque e piuttosto titolati, soprattutto a Milano. Alcuni sono stati selezionati ad Art Verona, altri saranno protagonisti assoluti di Dama, la fiera più alternativa e chic che apre a Torino nei prossimi giorni durante Artissima. Fondamentali sono i rapporti con gli equipollenti stranieri: ciò che conta davvero è mettere in piedi una rete (e i primi contatti nascono sempre sul web) di rapporti, relazioni, scambi.
Oggi il giovane artista non cerca finanziatori o mecenati. Sviluppa progetti attraverso call, residenze all’estero, application, premi, borse di studio, che sono numerosissimi se si ha solo voglia di smanettare su internet e rappresentano il principale sistema per farsi conoscere e apprezzare, offre la possibilità di realizzare i lavori e risulta il primo serbatoio informativo per i curatori. In una logica di assoluta delocalizzzione: non esiste più l’artista italiano, ma l’artista che viaggia, parla le lingue, mette in campo relazioni con i propri coetanei.
Ciò che è davvero interessante nell’arte oggi viene da qua. I ragazzi nati negli anni ’90 (se i calciatori a quell’età giocano in Nazionale non si vede perché non dovrebbero stare anche nei musei) si stanno reinventando un modus alternativo la cui energia sta facendo ripartire l’asfittico sistema dell’arte. Con un solo evidente limite: parole, scrittura, progetti, relazioni non sempre fanno un’opera, che troppo spesso resta confinata a intenzione di opera. Visitare uno spazio indipendente equivale a perdere parecchio tempo in spiegazioni e racconti, quando invece la vera opera d’arte ha bisogno di una precisa finalizzazione formale. Se non resta un oggetto, qualcosa di visibile, tangibile, catturabile con uno qualsiasi dei nostri sensi, l’impressione è che manchi il risultato finale. Però si può aspettare, sarebbe inutile sottrarre entusiasmo a chi porta avanti questa nuova linea dell’arte italiana il cui processo di svecchiamento comincia a mostrarsi evidente.