La prima impressione è quella sbagliata. Chi arrivasse al Vodafone Data Center di Ponte San Pietro (Bg) sarebbe perplesso nel vedere che, all’indirizzo indicato, si trova un’enorme struttura targata Aruba. Un equivoco? No: la Telco è ospitata (ma è proprietaria) qui, nel campus di Aruba, nato nel 2017 e tuttora il più grande d’Italia. Esteso per 200mila metri quadrati, si trova a pochi passi dal fiume Brembo (e, come si vedrà, non è un caso). È in questo angolo del bergamasco che si trovano i server di Vodafone, con tutti i loro servizi digitali (cloud compreso) – l’altro del nord Italia è a Settimo Milanese. È una scelta oculata visto che secondo diversi parametri di sicurezza, la distanza tra due data center deve superare i 45/50 chilometri. E quello di Bergamo, comunque «è uno dei migliori d’Europa».
Per la sicurezza, prima di tutto. Forse, come scherza Luca Ferrando addetto ai servizi digitali di Vodafone, «non ha il tetto anti-meteorite», ma comunque può vantare un livello di protezione Tier 4. Quello più alto, cioè il 5, si utilizza solo per le strutture militari. Garantisce, insomma, il 99,992% di continuità del servizio. Anche se «in due anni il disservizio totale è durato 0 minuti». L’area è controllata manu armata ogni ora del giorno dell’anno e, fanno notare, è anche collocata su una zona particolare, il cui substrato è antisismico. «L’ultima scossa di cui si ha notizia da queste parti risale a 2000 anni fa», spiegano (e fanno scongiuri). «In ogni caso, vista la natura del terreno, non dovrebbero esserci problemi per la struttura».
E poi, in secondo luogo, è notevole per la sua concezione green. Sorge e si espande in ampiezza sull’area occupata una volta dalla fabbrica della Legler, azienda svizzera arrivata in provincia di Bergamo all’inizio del XX secolo. Produceva e tingeva tessuti. Ora quegli spazi sono riutilizzati per il collocamento di generatori elettrici e batterie, alimentati dalla corrente creata dalla vicina centrale idroelettrica (ecco perché, si capisce, è vicina al fiume). Per la precisione, la corrente viene generata, poi messa sulla linea e subito acquistata da Aruba per alimentare il suo Data Center. «Nella centrale c’è ancora una turbina del 1946 che funziona a pieno regime», raccontano con orgoglio. Alla quale se ne è aggiunta una nuova nel 2001. «Adesso si progetta una terza». Per la cronaca: non si sono mai verificate interruzioni nell’erogazione di energia finora ma, nel caso – come ci mostrano nello spazio aperto, sotto un cielo grigio che minaccia pioggia – ci sono almeno una decina di cisterne di gasolio verdi pronte a partire in caso di necessità.
La sala dei server si presenta come una fila di armadi (i rack) con dentro server. Le miriadi di luci pulsanti (verdi, perlopiù) sono i segnali delle trasmissioni di energia, cioè di dati. È qui, insomma, dove si trovano le informazioni digitali di ciascuno
Alla fine, ecco la sala dei server, il sancta sanctorum di tutto il complesso. Si raggiunge dopo sette diversi perimetri di controllo. «Non è fredda», promettono, a differenza di tante altre nel mondo. È, a dir la verità, piuttosto calda. Alcune aziende, come è noto, costruiscono i Data Center (che consumando molta energia creano una grande quantità di calore) sotto il livello del mare o, come la Microsoft, in Siberia. Il raffreddamento è necessario per mantenere nel tempo le prestazioni degli apparecchi informatici ed è anche una delle maggiori cause di consumo di energia. Qui la struttura è pensata per non disperdere la temperatura e mantenere freschi i server con getti di aria dal basso di 16 gradi che poi vegono soffiati verso il soffitto, dove hanno già raggiunto i 22 gradi. Lo scambio di calore avviene grazie a tubi di acqua estratta da una falda acquifera che si trova sotto l’area. «A circa 20 metri di distanza». L’acqua, più o meno a 14 gradi, viene pompata e utilizzata per assorbire il calore del’aria usata per i server. «Serve anche a rendere meno calda l’acqua di ritorno, che non può essere rimandata nella falda se supera i 22 gradi». È un sistema, insomma, di raffreddamento geotermico, «consente un consumo minimo di energia ed è rispettoso per l’ambiente».
La sala dei server della Vodafone, dove alcuni operatori stanno facendo manutenzione, si presenta come una fila di armadi (i rack) con dentro server. Le miriadi di luci pulsanti (verdi, perlopiù) sono i segnali delle trasmissioni di energia, cioè di dati. È qui, insomma, dove si trovano le informazioni digitali di ciascuno. Questo, per la precisione, custodisce i server di imprese e aziende che hanno deciso o di ricollocare le proprie macchine nel Data Center (più sicuro) oppure di trasferire i propri dati sul cloud. Ma la questione vale in generale: tutto ciò che si impiega su Internet, nelle app, sui siti, è racchiusi in anonime file di rack dalle pulsioni luminose disseminate in tutto il mondo, custodite da un esercito di persone armate e a prova di bomba. Se qualcuno ancora non avesse capito quanto siano preziosi i dati oggi, questa è la dimostrazione più evidente.
Risalire dalla sala dei server, lungo sale e corridoi privi di polvere e dall’impatto olfattivo ridotto (cosa notevole, per una struttura chiusa anzi blindata), è come uscire dal cuore di un labirinto. O meglio, dal cervello: le informazioni pullulano senza sosta, immateriali come i pensieri – e come questi suscitate da stimoli elettrici, in un viavai continuo lungo cavi backbone che collegano Ponte San Pietro con tutto il mondo. A pensarci, fa impressione. Ma per fortuna si viene subito richiamati alla realtà, quella concreta: fuori, nel mondo materiale, è ricominciato a piovere.