Al tempo della normativa sul testamento biologico, delle proposte di legge sull’eutanasia e della sentenza della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio (l’ultima è quella di Marco Cappato, scagionato a settembre dall’accusa nei confronti di Dj Fabo), e mentre sempre più di frequente si ha notizia di pellegrinaggi verso la Svizzera e altri paesi di persone che decidono di abbandonarsi alla cosiddetta “morte dolce”, in Italia il tema del fine vita è infine arrivato a pieno titolo sul tavolo del dibattito pubblico. Non più inesistente o inammissibile, per diritto il diritto a morire si è fatto strada tra quelle che sono ormai le questioni etiche del nostro tempo, improrogabili quanto lo sono le implicazioni dell’intelligenza artificiale e la necessità di contrasto all’emergenza climatica a tutela della sopravvivenza delle generazioni future. Un dibattito, quello sull’eutanasia, sul quale tutti sono chiamati a riflettere, o quantomeno a informarsi per prendere posizione, ascoltando le argomentazioni di chi si esprime sulla materia, in un senso e nell’altro. In questo contesto si inserisce Paolo Flores d’Arcais, filosofo, ricercatore universitario e direttore della rivista MicroMega, con il suo ultimo libro Questione di vita e di morte, recentemente edito da Einaudi.
Qui, l’autore si spende in una organica analisi del tema del fine vita da un punto di vista che gli è proprio, quello ontologico, ma non solo. Sebbene, infatti, un prologo che prende l’avvio con “Un problema che non dovrebbe esistere” e conclude con “perché la tua vita sia tua, occorre lottare” lasci pochi dubbi sulla tesi di fondo del saggio, Flores d’Arcais non manca di analizzare il tema sotto tutti i profili possibili: logico, esistenziale, filosofico, giuridico e cattolico, dedicando a ciascuno un diverso capitolo. Così come non si esime dal farsi carico della risposta, una ad una, delle argomentazioni sollevate da figure e personalità del mondo cattolico – cardinali e papi compresi – che invece sostengono l’inaccettabilità di dare seguito alla volontà di morire di chicchessia.
La premessa è una, semplice, esplicitata fin dalle prime righe: la tua vita è tua, perciò nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro. Naturalmente, l’argomentazione va articolata, posto che esistono una serie di sfumature logiche, oltre che di casistiche variegate, alle quali ragionevolmente è improbabile riuscire a dare risposta univoca (è lo stesso Flores d’Arcais a dirlo). Nello sviluppo dei capitoli, però, il pregio è quello di saper ricondurre sempre, fermamente, il lettore a questo assunto di fondo. E malgrado il filosofo tenda, nell’obiettare alle argomentazioni degli esponenti e dei pensatori cattolici, a scadere in formulazioni dal tono derisorio dei detrattori dell’eutanasia, va detto che la sua rimane una lucida, impietosa arringa in difesa di quello che dovrebbe essere un diritto inalienabile di ciascuno.
«Io amo la vita, Presidente […] morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche»
«La morte ci fa paura e cerchiamo di rimuoverla dall’orizzonte della nostra esistenza, dovremmo invece tenerla sempre presente perché dell’esistenza è l’ineludibile», scrive l’autore. «Non sappiamo il quando e il perché, ma almeno il come è sempre più nelle nostre mani. Come vorremmo morire? Senza soffrire». È proprio in funzione di questo annullamento del dolore che l’uomo, attraverso la medicina, si è spinto tanto in là da superare i limiti che la natura gli aveva imposto, dominandola, piegandola al suo potere. «La vita e la morte di Homo sapiens hanno sempre meno a che vedere con la Natura», scrive Flores d’Arcais. «Oggi si può tenere in vita un feto, che può essere fatto passare per neonato, per giorni e anche settimane, benché con patologie gravissime che non gli consentiranno alcuna chance di sopravvivenza, e si può tenere in vita ad libitum o quasi un corpo della nostra specie ma non più umano, perché dalle funzioni cerebrali definitivamente e irreversibilmente collassate nel loro insieme». È il caso, appunto, dei malati irreversibili, di quelli terminali e di chi è affetto da patologie che causano dolori insopportabili. Condizioni che portano a perdere il senso stesso della propria vita, al punto che nemmeno più tale si può chiamare, e a desiderare la morte perché, umanamente, non esiste alternativa.
«Io amo la vita, Presidente […] morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio… è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà». Le grevi parole di Piergiorgio Welby si accompagnano, nel libro, alle testimonianze e le storie di tanti in condizioni simili: Vincent Hubert, Dominique Velati, George e Shirley Brickenden, David Goodall, Damiana Saba, Susanna Zambruno Martignetti Franco Lucentini, Mario Monicelli, Carlo Lizzani ed altri ancora. Casi più e meno noti, ma tutti accomunati dallo stesso terribile, inguaribile male: una vita che non è più vita, un’esistenza che è diventata una tortura.
«Prova comunque un attimo, anche tu che stai leggendo, a non diventare hypocrite lecteur ma essere umano, capace di empatia. Prova ad attivare tutti i possibili neuroni specchio, e la consapevolezza che se lo farai, intensamente, profondamente, sarà comunque pallidissima eco di quanto loro hanno provato o proveranno. Concentrati su ciò che più ti ha angosciato o ti può angosciare, al dolore più raccapricciante, alla sofferenza da cui hai sempre distolto la mente per quanto ti agghiacciava. E ora immagina che questo stato di dolore e angoscia, terrore e paralisi, strazio e disperazione non passerà, MAI, che a quel momento già interminabile ne succederà un altro, e poi un altro, e poi un altro… E che vuoi urlare basta!, che questo basta! È l’unica brace di vita tua in cui tutto il tuo essere ormai si raccoglie e concentra. Che differenza ci sarà per chi deve vivere questa vita PER SEMPRE con l’inferno e la sua eternità?», scrive Flores d’Arcais.
«Giustamente, civilmente, anche per i criminali più efferati, che magari continuano a vantarsi dei delitti commessi, le legislazioni che prevedono la morte vietano la tortura»
Chi siamo noi per imporre ad un altro un tale calvario? Chiede l’autore dalle pagine. «Giustamente, civilmente, anche per i criminali più efferati, che magari continuano a vantarsi dei delitti commessi, le legislazioni che prevedono la morte vietano la tortura». Eppure, chi sostiene attivamente il divieto alla buona morte generalmente guarda a queste persone come a “vittime d’una situazione che non sono riuscite a dominare”. «Ma vuoi stabilire tu la soglia della sofferenza inenarrabile, del martirio insopportabile?», scrive ancora Flores d’Arcais. Quella sul fine vita non può essere che una decisione personale, perché personale è il rapporto con la vita e come la si conduce. Perciò a chi si affida alla divinità l’autore dice: «La vita appartiene a Dio, dici? Sia pure. Fai pure. Se vuoi che la tua vita appartenga al tuo Dio, liberissimo. Non pretendere di imporre il tuo Dio agli altri, però, non osare in nessun modo, comunque dissimulato, mimetizzato, contrabbandato, imbellettato. Perché quando affermi che la tua vita appartiene al tuo Dio (e mai che la vita appartiene a Dio, ognuno ha il suo) sei sempre tu che decidi della tua vita, non Lui».
Flores d’Arcais affronta il tema del fine vita sotto i profili più e meno evidenti, dalla santità del martirio nella Chiesa al rapporto tra medico e paziente. Eccessivamente lungo sarebbe addentrarsi in tutti gli aspetti affrontati nel saggio; del resto la morte, come la vita, è materia complessa. Per alcuni, molto più dolorosa che per altri. Ma certamente il libro costituisce un valido spunto dal quale cominciare a trarre considerazioni per un dibattito che, in un modo o nell’altro, dobbiamo affrontare. In Italia la proposta di legge dell’associazione Coscioni sta ancora puntando a porre le basi di un percorso legislativo ed etico che, senz’ombra di dubbio, dovrà avvenire in maniera progressiva e nell’arco di tempo. Prevedere l’eutanasia per i malati adulti, consenzienti, affetti da malattie incurabili e fonte di dolori insopportabili è chiaramente un unicum che comprende una minima parte delle innumerevoli sofferenze che portano le persone a decidere di abbandonare la vita. Molti lo fanno, in un modo o nell’altro, pur non avendo la possibilità di scegliere. Ma arrivare a garantire loro la possibilità di farlo in maniera non violenta, circondati dai propri cari e soprattutto togliendo loro il peso di ritrovarsi fino alla fine in una gabbia di dolore, è una tra le più grandi battaglie di civiltà del nostro tempo. Così come sarebbe una conquista sociale a beneficio di tutti. Che cosa è altrimenti umanità, anche cristianamente, se non accoglienza, rispetto dell’altro, e umiltà nel prendere atto della finitezza dell’uomo?