Il disco dell’autunno è il disco dei nasi nelle rose. Parliamo di Desert Sessions 11/12, uno dei tanti progetti “collaterali” di Josh Homme, che i più conoscono come leader alto, roscio e nevrile dei Queen Of The Stone Age; e gli hipster della desert rock scene allocati al Birrificio di Lambrate (Milano) menzionano SOLO come componente dei Kyuss.
Rock del deserto. Stoner rock. La genesi è degli anni ’90, party clandestini tra le dune, Palm Springs, Joshua Tree, piste di skate abbandonate nel nulla, chitarre accordate basse, fino a confondersi col basso pure quello distorto -è il seme di un’idea di suono totale, che comprende voci e batterie in overdrive, un po’ una gigantesca devil box, come i primi bluesman chiamavano gli amplificatori- tempi squadrati, tendenti al 2/4 dato che Homme si è formato musicalmente con un maestro di polka, l’unico del paese quando era bambino. Armonie più tonali che modali e voci non necessariamente feroci, in qualche caso atroci. Il suono del deserto è fatto anche (giocoforza) di bordoni lunghi, che evocano spazi ampi. Distorsioni antiestetiche (armoniche dispari) e sabbiose. Deserto sia.
Rock del deserto. chitarre accordate basse, tempi squadrati, tendenti al 2/4, voci non necessariamente feroci, in qualche caso atroci
Ci sono almeno un paio di documentari su Netflix e altrove che evocano quello spazio, quel suono, quei protagonisti, e quello studio: il Rancho Relaxo, tenuto da Dave Catching. A qualche chilometro un pub di legno che offre nel menu il fried rattlesnake, che, a quanto riferisce chi l’ha assaggiato, fa schifo. Intorno sabbia e carcasse di pickup. Gente che arriva, assume qualche fungoide, collega strumenti, dice cose stupide, e suona stoner-rock.
Homme dunque. Per chi scrive, il capolavoro assoluto dei Qotsa resta Songs for the deaf (2002), l’ultimo Villains è villano. Capolavoro poco apprezzato Like Clockwork, del 2014, scritto da Homme dopo giorni di coma, forse per un intervento al ginocchio in cui qualcosa è andato storto. La storia del ginocchio ha l’aria della solita copertura-stampa, ma il coma c’è stato, la ventata dell’angelo nero anche, e il disco contiene capolavori di pre-morte come I appear missing, e Like clockwork.E poi una serie di cose collaterali di Homme, stile factory, con ospiti, andate avanti per decenni: le Desert Sessions appunto: si va da PJ Harvey a Alex Turner degli Arctic Monkeys, Mark Lanegan degli Screaming Trees, lo stesso Nick Olivieri, bassista del Qotsa fino a quando Homme non decise di licenziarlo (pare, per molestie alla fidanzata). Tanti altri. L’idea alla base è suonare senza progetto e senza vincoli di marketing. Ma c’è un posto, c’è un sound, c’è, diremmo, uno spirito, sempre quello. L’ultimo disco è del 2003, in Volumes 9/10 c’erano i noti capolavori Crawl Home, e I Wanna Make It wit Chu, con una super-Harvey.
Si dice che durante la produzione di Noses in roses Homme si sia tenuta attaccata al naso una rosa rossa con del nastro adesivo
E a sedici anni di distanza arriva il volume 11/12, il disco dei nasi e delle rose. Si dice che durante la produzione di Noses in roses Homme si sia tenuta attaccata al naso una rosa rossa con del nastro adesivo. “Avremo il naso nelle rose per sempre […] non preoccuparti più/arrivederci disperazione”. Gli ospiti, in apparenza sono perfetti per uno show da fumetto rock. Insieme ad altri c’è Billy Gibbons degli ZZ top, c’è il genio esorbitante di Les Claypool dei Primus al basso, c’è la batterista (rock) perfetta: Carla Azar.
È un disco allegro, ed era ora, dopo un settembre di pop italiano strappacore, un ottobre battistiano, quindi nostalgico, e amletico: era meglio il Battisti con Mogol o quello con Panella? E Anima latina è un capolavoro come si tende ad affermare presso gli hipster lambratesi (e non solo) o il bel Mogol si è confuso coi testi?
Desert Sessions è un disco allegro con una canzone d’amore funky perfetta: Move together. Un inaspettato reverendo Gibbons che abbandona le sue oscenità leggendarie e canta in falsetto. Compreso un giocondo (e nevrile) intervento a due batterie, e una parte sognante. C’è una breve e violenta e pop Crucifire con Mike Kerr, e una esoterica Something You Can’t see con alla voce Jake Shears degli Scissor sisters. E poi c’è una canzone strana.
Il centro qualitativo di queste poche canzoni è spiraliforme, e parecchio più buio di quello che sembra
Non si capisce bene chi sia l’interprete di If you run. Ballata cupa, voce femminile. Le note del disco ci informano sul fatto che si tratterebbe di una certa Libby Grace, convinta che l’autocorrettore del suo iphone sia rotto. Ma è una convinzione che hanno molte donne (e uomini) che chi scrive conosce. Forse è, anche qui, Polly Jean Harvey. Ma chissà.
C’è un arpeggio lento, parole che sembrano uscite da un qualche Cormac McCarthy (He waiting on her charms/ Deep scars, fading in the stars/ Fading in each other’s arms/ He took her down to his hiding place/All he’s bringing back is dust on his face) è una chitarra elettrica che si immette desolata con versi da cetaceo.Questo Desert Sessions 11/12 è un disco breve di apparente cazzeggio. Qualcuno ha parlato di freak show, di divertissement, e sbaglia, perché il centro qualitativo di queste poche canzoni è spiraliforme, e parecchio più buio di quello che sembra. Il serpente a sonagli non è fritto, ma vivo, a ragionevole distanza. Ragionevole per lui.