Ensign Peak, il monte su cui il profeta mormone Brigham Young, nel 1847, proclamò Salt Lake City la “terra promessa” del mormonismo, era una zona rurale simile a quella in cui lunedì tre donne e sei bambini della comunità dei LeBarón hanno perso la vita, trucidati per mano di un commando di narcos, probabilmente del cartello Los Jaguares, nello stato di Sonora, in Messico.
La discesa a Salt Lake City del profeta Young e del gruppo di fedeli che lo aveva seguito a metà dell’Ottocento rappresentò un nuovo inizio per la religione mormona, un momento decisivo che gettò le basi per l’organizzazione religiosa conosciuta oggi come Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni e che ha il suo “Vaticano” proprio in Utah.
L’attraversamento in macchina da parte dei LeBarón, invece, membri di un gruppo fondamentalista mormone non riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa, ma conosciuto per aver denunciato spesso i soprusi dei cartelli messicani della zona, è stato l’inizio della fine per nove persone innocenti: Dawna Ray Langford, 43 anni, Rhonita Maria Miller, 30 anni, Christina Marie Langford, 29 anni, e sei dei loro figli. Due di loro, rimasti intrappolati nelle macchine in fiamme dopo gli spari, avevano meno di un anno. Un terzo, invece, era riuscito a scappare dalla macchina ma è stato inseguito da uno dei membri del commando e ucciso con un colpo di pistola alle spalle, poco dopo.
L’episodio, cruento, ha riaperto gli occhi del mondo sulle violenze e sul sangue sparso in Messico. Ma non è il primo episodio di violenza nella storia di una religione giovane, fondata nel 1830 nello Stato di New York da Joseph Smith. È lui, il profeta che pubblicò “Book of Mormon”, testo frutto di una rivelazione in una lingua chiamata egiziano riformato, e tradotta in inglese, in cui Gesù visitò i nativi americani dopo la sua resurrezione.
La rivelazione disse a Smith che il Vangelo andasse “restaurato” perché mai stato trasmesso correttamente. E ben presto, a causa della loro poligamia, i mormoni iniziarono a essere perseguitati dagli Stati dell’est, come New York e cacciati verso ovest. I massacri in questa transizione non sono mancati, come nel 1838 quando un commando armato attaccò un gruppo di credenti in Missouri, provocando la morte di 22 innocenti.
Quasi duecento anni dopo, molte cose sono cambiate. Gli stessi mormoni hanno usato la forza in più episodi contro le comunità locali di nativi americani, per guadagnare la loro porzione di terra in Utah. Poi, nel 1890 presero una decisione: abolire la poligamia
Quasi duecento anni dopo, molte cose sono cambiate. Gli stessi mormoni hanno usato la forza in più episodi contro le comunità locali di nativi americani, per guadagnare la loro porzione di terra in Utah. Poi, nel 1890 presero una decisione: abolire la poligamia. Una scelta che divise la comunità di fedeli. E che ha portato famiglie a essere scomunicate dalla Chiesa. Non sono gli unici però, i LeBarón, ad aver rifiutato le regole imposte dall’istituzione principale.
Il padre dei cosiddetti gruppi fondamentalisti si chiama Lorin Woolley, che rinnegò il Manifesto del 1890 e predicò una diversa concezione del concetto di famiglia all’interno dei mormoni. E oggi sono tra i 20.000 e i 60.000 i fondamentalisti mormoni nel mondo, rappresentano circa lo 0,1% – 0,4% del totale. Nonostante le divergenze cruciali su molti aspetti decisivi tra cui la concezione del matrimonio, l’attacco cruento di lunedì ha però congelato per qualche ora le distanze tra la Chiesa principale e questi gruppi non riconosciuti.
«Siamo sconvolti nell’apprendere della tragedia che ha colpito queste famiglie in Messico. Nonostante non si tratti di membri della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, il nostro amore, le nostre preghiere sono rivolte alle vittime e si aggiungono alle loro lacrime» ha detto a Linkiesta Eric Hawkins, portavoce della Chiesa mormona a Salt Lake City.
Mentre Mitt Romney, ex candidato presidente nel 2012 contro Obama, tra gli esponenti più conosciuti della comunità mormona negli Stati Uniti, ha scritto in un tweet: «Io e mia moglie Ann abbiamo il cuore spezzato per le vittime di questo orribile attacco in Messico. Le nostre preghiere sono con le loro famiglie che hanno sofferto una tragedia inspiegabile. Gli Stati Uniti devono lavorare con le autorità messicane per punire i responsabili di questa violenza insensata».
L’attacco è stato sulla bocca e nella mente di tanti, in Utah, non solo tra le istituzioni. Michelle Brown è una fashion designer di 30 anni, nativa americana cresciuta in Alaska e di base a Orem, una cinquantina di chilometri da Salt Lake City. «Ne abbiamo parlato tutti in ufficio, non possiamo credere che sia stata perpetrata una violenza del genere contro delle donne e dei bambini». Anche lei è membro della Chiesa, «ma con un rapporto conflittuale con la religione». Sposata con Nate, cattolico convertito, è mamma di Azure, un bimbo dalle guance paffute e dai tratti Navajo che ha poco più di due anni. Un bimbo poco più grande di due dei sei della famiglia LeBarón che hanno perso la vita nel nord del Messico lunedì.
Michelle e Nate frequentano la meetinghouse mormona, a Orem. E rappresentano un esempio perfetto per capire lo stato della religione oggi. Una Chiesa che stabilisce una distinzione netta tra uomini e donne e tra priesthood (il sacerdozio, a cui i membri maschi entrano a far parte dai 12 anni) e relief society (la società di soccorso, a cui le ragazze entrano a far parte dai 18 anni), ma che impone ai due sessi di rispettare compiti diversi ma ugualmente importanti. «Le parole per capire la Chiesa di oggi sono due: famiglia ed efficienza», dice Colleen McDannell, professoressa di Religious Studies alla Utah University e autrice di “Sister Saints”, un libro sulle donne mormone edito dall’università di Oxford.
«Non si deve pensare che le donne siano forzate a rispettare questi ruoli», dice la professoressa. «Spesso le faccende di casa sono divise in modo equilibrato, così come le decisioni sui figli, perché le donne hanno un ruolo ben definito
«Non si deve pensare che le donne siano forzate a rispettare questi ruoli», dice la professoressa. «Spesso le faccende di casa sono divise in modo equilibrato, così come le decisioni sui figli, perché le donne hanno un ruolo ben definito, che in un certo senso arriva dalla figura della heavenly mother», la madre celeste che affianca il padre celeste nel testo sacro. E che ispira ancora oggi ragazze come Michelle. Oggi molte mormone d’America «devono andare a lavoro per far quadrare i conti», ma non mancano «i casi dove siano loro stesse a sognare di rimanere a casa».
Non è stato così per Michelle, che dallo Utah sta mantenendo la sua famiglia mentre Nate sta terminando gli studi all’università mormona Brigham Young di Provo. A New York era stato il contrario: lui lavorava, lei affrontava gli esami alla Parsons University di Manhattan, dove si è laureata in Fashion Design.« C’è una distanza molto forte tra il mio approccio e la mia congregazione a Orem: ero più stimolata da quella che frequentavo a New York», dice Michelle, secondo cui i passi effettuati dalla Chiesa in questi anni non sono stati sufficienti.
La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni si è vista infatti costretta ad aggiornarsi per stare al passo con i tempi e continuare la sua crescita. Dallo scorso aprile, ad esempio, la Chiesa ha deciso di accettare di concedere il battesimo ai figli delle coppie LGBT: uno step non indifferente per una religione che continua a considerare le coppie dello stesso sesso «peccatrici» degne di scomunica e che fino alla policy pubblicata nel novembre 2015 aveva vietato il battesimo ai bambini delle coppie omosessuali, ora invece riconosciuto. Ma le regole, come quella che vieta ai mormoni di bere alcoolici e caffè, rimangono ancora oggi ferree. La relief society femminile, spiega la professoressa McDannell, «pur partecipando a tutti i momenti della vita della Chiesa, è più debole rispetto a quanto fosse, ad esempio, negli anni ‘70» . E delle 109 figure predominanti dei mormoni, 101 sono ancora uomini, al cui vertice c’è il presidente 95enne Russel M. Nelson.
«Nonostante questo, tragedie come quella di lunedì ci portano a sentirci tutti più vicini» spiega Michelle. Ferrei credenti e membri meno legati alla religione, scomunicati e non scomunicati. Anche perché alcuni membri cresciuti nella comunità dei LeBarón, oggi fanno parte dell’istituzione principale. E l’episodio di violenza di lunedì, dove bimbi minorenni sono stati bruciati vivi e mamme innocenti sono state uccise a sangue freddo, non è stato il primo per la famiglia LeBarón.
La comunità, nel 2011, era stata messa sotto la protezione di 90 poliziotti federali, a causa delle tensioni tra la famiglia e i cartelli criminali messicani. E nel 2009, un membro dei LeBarón era stato ucciso a sangue freddo, mentre un altro era stato rapito e rilasciato. Una delle tre donne uccise lunedì era un’attivista conosciuta nella zona per aver denunciato i soprusi dei narcos.
Gli omicidi di lunedì potrebbero non gli ultimi. «Per quello che possa contare, anche se sono parte di un gruppo non riconosciuto dalla Chiesa, siamo vicini a queste persone», dice Michelle. «Quello che è successo è inaccettabile».