Che la riflessione attorno allo “stato delle cose” e alla configurazione del mondo in atto da qualche anno sia molto viva lo dimostrano libri che — dalla pubblicistica più generalista alla saggistica più impegnata — riflettono, criticano, cercano di dare soluzioni. Qualche giorno fa abbiamo raccontato come gli studi di Shoshanna Zuboff abbiano contribuito a dare un nome e una cornice di sistema alla logica che sottende alle recenti derive della produzione di valore attraverso i dati e la tecnologia: il capitalismo della sorveglianza. Questo interesse, però, non è solo relativo agli addetti ai lavori (che spesso peccano di autoreferenzialità e non escono dalle bolle che si autocostruiscono, a dimostrazione che questi problemi non sono solo relativi ai social network): si pensi ad esempio al recente successo di Homo Deus, il saggio con cui Yuval Noah Harari ha cercato di tratteggiare il mondo in cui vivremo. C’è fame di comprensione e di parole per orientarsi in questo casino. Ma c’è anche bisogno di un pensiero capace di mettere in gioco le categorie e proporre sintesi filosofiche per meglio capire logiche, comportamenti e automatismi. È proprio su questo punto che si concentra l’importante e impegnativo volume La società automatica di Bernard Stiegler filosofo francese che lavora molto in Cina, pubblicato solo ora (la prima edizione è del 2015) in Italia per Meltemi (traduzione di Sara Baranzoni, Igor Pelgreffi e Paolo Vignola).
L’automazione cui il titolo fa riferimento non è solo legata al mondo del lavoro, alle sue trasformazioni e alle giuste preoccupazioni che questa porta nel quotidiano. Ma proprio nelle dinamiche diventate ormai, appunto, automatiche delle nostre pratiche quotidiane e dei nostri modi di pensare. Siamo persone automatiche, ormai: una conseguenza del capitalismo cognitivo che ha alterato (e in questo il libro dialoga idealmente con le riflessioni di Zuboff) gli stili di vita, le strutture politiche e addirittura la sfera emotiva fino a renderci passivi pure nell’accettazione di questo stato di cose. Sembra di sentir riecheggiare l’inesorabile inevitabilismo thatcheriano del “there is no alternative”, proprio perché le pratiche di riproduzione della società automatica sono così veloci da rendere difficile, se non impossibile, la possibilità di riprendere il controllo.
Per tornare a “pensare all’alternativa”, e a “immaginare un futuro” oltre agli slogan buoni per una politica totalmente a corto di idee, in effetti, bisogna prima di tutto scardinare i meccanismi psicologici di questo nostro presente automatico
Nella sua riflessione filosofica, Stielger parte dalla necessità di comprendere questi automatismi per provare non a “viverne al di fuori”, non a cercare un neo-luddismo impossibile, quanto a disautomatizzare. In questo tentativo, si fa dialogare la Scuola di Francoforte (soprattutto l’idea del “mondo totalmente amministrato”) con Deleuze, Guattari e Derrida. Il bisogno di un’azione profonda sui meccanismi necessita, appunto, prima di tutto di un dialogo costante con le categoria della tecnica (che con la postmodernità hanno preso sempre più piede diventando, appunto, dominanti) e poi un esercizio di decostruzione. Stare dentro le contraddizioni e il conflitto è una condizione determinante — sia in termini filosofici che in termini politici — per provare ad agire sui meccanismi profondi che determinano l’automazione dei processi cognitivi, delle pratiche personali e di costruzione della società.
Quando Mark Fisher scrive Realismo Capitalista, dedica molte pagine alla malattia mentale, alla depressione e al ricorso ai farmaci come tentativo rifunzionalizzante dentro una società in cui l’iper-competitività ha ridotto le persone — a partire dagli studenti, totalmente demotivati, non concentrati e impegnati in una corsa all’accumulo di voti, studiando anche qui in modo automatico e non verticale — a vettori di pratiche dominanti calate dall’alto. Per tornare a “pensare all’alternativa”, e a “immaginare un futuro” oltre agli slogan buoni per una politica totalmente a corto di idee, in effetti, bisogna prima di tutto scardinare i meccanismi psicologici di questo nostro presente automatico (Stielger parla proprio di psicosamaticità). A rischio, ormai lo sappiamo, non c’è solo la tenuta democratica — che già è importante — o il ruolo del lavoro nel futuro, ma anche e soprattutto la nostra dimensione di persone nel mondo, che rischia di essere sempre più a rischio annullamento. Effettivamente, quando si sottolinea la necessità di un nuovo umanesimo, vuol dire ingenuamente dare risposte a questo problema. Perché se no, come dicevano i Kraftwerk ormai quarant’anni fa, ci dovremo davvero rassegnare a essere robot.