Manifestazioni di piazza che continuano da e per giorni; mezza Francia che, Natale o non Natale, è ancora in panne per scioperi e proteste; i sindacati, tutti, che giurano che mai più vorranno avere a che fare con Emmanuel Macron; i Gilet Gialli che, dopo un anno di fiacca, sono tornati belli ringalluzziti in piazza; Marine Le Pen che vede la popolarità di Macron andare in cantina (33%) e che si sfrega le mani e spera l’insperabile.
Nonostante tutto questo, Macron e il premier Eduard Philippe hanno dato a intendere di non voler cedere di un centimetro sulla faccenda pensioni. Perché?
In buona sostanza perché ritengono che la riforma del sistema delle pensioni sia “la” loro battaglia, quella su cui si giocano il tutto per tutto, quella per cui passare alla storia o morire provandoci. Il tema in Francia è, come inevitabile quando si tratta di pensioni, parecchio sentito. Un recente sondaggio Ifop ha mostrato che il 76% dei francesi ritiene che una riforma sia necessaria; d’altro canto però il 64% di loro non si fida di Macron e Philippe e il 54%, nel dubbio, sta comunque dalla parte degli scioperanti.
La faccenda però è parecchio più complicata di quel che la propagando pro o contro Macron lascia a intendere. La Francia (fonte OCSE) è il terzo paese d’Europa per spesa pensionistica (alle spalle di Grecia e, toh, Italia) e spende, in pensioni il 14% del suo prodotto interno lordo. Una spesa che, comunque, Macron non ha detto di voler ridurre ma solo rendere più efficace evitando il previsto disavanzo di 17,2 miliardi che si calcola le casse pubbliche possano raggiungere nel 2025.
Il sistema pensionistico francese, che di recente Philippe Martinez capo della CGT (simile alla nostra CGIL) ha definito «il migliore al mondo», è in realtà marasma complicatissimo che conta 42 casse diverse, ognuna con le sue logiche che, in molti casi, danno origine a diseguaglianze anche gravi. Per esempio c’è chi va in pensione a 50 anni (i ferrovieri), chi a 55 (i lavoratori della Métro di Parigi) e chi a 62 (molti lavoratori del settore privato); oppure ancora c’è chi va in pensione con il generoso e iniquo sistema retributivo (quasi tutto il settore privato, sulla base dei 25 anni più redditizi, e i dipendenti pubblici, ma solo sulla base degli ultimi sei mesi lavorati) e chi invece si ritrova con la pensione calcolata con il più parco sistema contributivo.
Una faccenda in cui già Jacques Chirac, Alain Juppé e Nicholas Sarkozy provarono a mettere ordine, schiantandosi però, sempre, contro le proteste di piazza. Macron e Philippe, invece, sembrano intenzionati a tirare dritto e, seppure si siano detti disponibili (anzi: desiderosi!) a incontrare i sindacati per arrivare a un accordo, hanno anche fatto sapere che il cuore della riforma non cambierà.
Anche se non ci sarà nessun aumento dell’età pensionabile che era (dai tempi di Sarkozy) e resta a 62 anni, ci sarà un sistema di incentivi per chi lavorerà di più: +5%/anno per chi lavora fino a 64 anni (o più). Allo stesso modo, nel piano, ci potranno essere forme di pensione anticipate, che però costeranno al lavoratore il 5% in meno per ogni anno di mancato lavoro. Niente più casse disersificate, ma un unico sistema a punti: per ogni ora di lavoro effettuata verranno assegnati punti che varieranno da professione a professione e che saranno uguali per tutti (eccezion fatta per i lavori usuranti che, evidentemente, valgono di più). Questo, nel pensiero del governo, dovrebbe consentire di cambiare lavoro senza dover cambiare anche cassa previdenziale pensionistico (i francesi, oggi, ricevono circa 2,5 pensioni a testa).
Il nuovo regime entrerà in vigore dal 2025 e non toccherà nessuno dei nati prima del 1975. Quelli nati tra il 1975 e il 2004 avranno un sistema misto (ossia il vigente fino al 2025, quello a punti, dopo) e i nati dopo il 2004, invece, solo il nuovo regime. Una pensione minima garantita di € 1.000 (oggi è di poco meno di 900); la proposta dovrebbe piacere a tutti ma così non è perché si contesta il fatto che venga vincolata al salario minimo e non più all’inflazione.
Dunque cosa non piace a chi protesta? Varie cose (oltre a Macron stesso, parecchio indigesto tanto a sinistra quanto a destra): in primo luogo i sindacati non credono al fatto che l’età pensionabile non sarà alzata. Anzi. Il fatto che il Primo Ministro Eduard Philippe abbia parlato di età pivot, ossia «età chiave», indicandola nei 64 anni e dicendo che sarebbe quella l’età giusta per la pensione, ha fatto temere che il sistema di incentivi sia solo un modo per mascherare un aumento dell’età pensionabile de facto di due anni.
Poi la faccenda dei punti cui sarà vincolato l’assegno mensile, secondo i sindacati, porterà a una diminuzione di fatto delle pensioni. Infine, ovviamente e comprensibilmente, piace poco la fine del sistema di privilegi mascherati dei diritti che le 42 casse hanno consentito sin qui.
Timori forse fondati forse no, rispetto ai quali il governo ha dato rassicurazioni sì, ma sempre tenendo fermi i perni della riforma su cui dice di non voler negoziare più di tanto.
Un braccio di ferro il cui vincitore si conoscerà non prima dell’estate, quando la riforma sarà votata in Parlamento. Sino ad allora, c’è da scommettere, saranno ancora scioperi, proteste e manifestazioni.