All’indomani delle elezioni britanniche in molti, in Italia, hanno espresso la loro invidia per un sistema capace di fornire, come recita uno slogan purtroppo mai passato veramente di moda, un «vincitore netto la sera stessa del voto». Non stupisce che simile invidia per i sistemi maggioritari – britannico e americano – l’abbia espressa Matteo Salvini, che ha mille motivi di gioire per la vittoria di Boris Johnson e del fronte pro-Brexit. Stupisce, semmai, che analoghi sentimenti alberghino anche in consistenti frange del Partito democratico (perlopiù di area post-renziana) e tra gli studiosi di area progressista in generale, ancora invaghiti di quel modello anglosassone che da trent’anni tentano di trapiantare in Italia, nonostante le evidenti crisi di rigetto seguite finora a ogni tentativo.
Sta di fatto che ieri è stato il New York Times, quotidiano americano che certo non può essere ascritto all’empia schiera dei nostalgici della Prima Repubblica, a fare un paio di conti e a notare come di fatto, in Gran Bretagna, il voto degli elettori conservatori abbia pesato dieci volte quello dei liberaldemocratici (in media, per ottenere un seggio, ai conservatori sono bastati poco più di trentottomila voti; ai lib-dem ne sono serviti poco più di trecentotrentaseimila). Traendone la conclusione che è grazie al sistema uninominale maggioritario che i conservatori hanno potuto ottenere una maggioranza schiacciante, mentre con una legge proporzionale è probabile che oggi in Gran Bretagna si sarebbe potuta formare una maggioranza anti-Brexit. Ma il punto decisivo – e la ragione per cui l’analisi di Amanda Taub acquista un certo interesse anche per l’Italia – è che «il maggioritario uninominale funziona in un sistema bipartitico», mentre non funziona affatto in un sistema multipartitico. Il che per la Gran Bretagna non è stato mai un problema, fino a quando la Brexit non ha frammentato il quadro e moltiplicato i partiti. Proprio come è accaduto in gran parte d’Europa, dove l’onda populista ha avuto effetti non dissimili, ma sistemi elettorali proporzionali hanno permesso di evitare analoghe distorsioni della rappresentanza. Mentre negli Stati Uniti il bipartitismo ha retto, evitando la nascita di un partito estremista a destra del partito repubblicano, ma non ha potuto evitare che, con le primarie, l’estrema destra si prendesse tutto intero il Grand old party.
L’analisi del New York Times si attaglia perfettamente all’Italia, che un bipartitismo non l’ha mai avuto, e in cui di conseguenza tutti gli esperimenti maggioritari condotti negli ultimi trent’anni hanno avuto effetti disastrosi, tanto sulla rappresentanza quanto sulla governabilità. Il tentativo di concentrare forzosamente i consensi, infatti, ha suscitato sempre potenti reazioni di rigetto. Se non ci fosse stato l’Italicum, ad esempio, tutta la campagna del fronte antireferendario nel 2016, incentrata com’era sulla minaccia dell’«uomo solo al comando», sarebbe risultata assai più debole. Ma lo stesso si potrebbe dire per tutti i tentativi precedenti, compreso quello berlusconiano. Perché la via d’uscita gollista dalla crisi della Prima Repubblica gli italiani non l’hanno mai voluta e non l’hanno consentita a nessuno, nemmeno a Silvio Berlusconi.
Il problema è che dall’introduzione del maggioritario e con l’inizio dell’infinita serie dei tentativi di riforma presidenzialista, para-presidenzialista o para-peronista di questa infausta stagione, per di più in piena Mani pulite, il sistema ha trovato un suo perverso equilibrio, compensando il venir meno dei contrappesi istituzionali e parlamentari con contrappesi, per dir così, extraistituzionali (o almeno extrapolitici: con la crescente autonomia conquistata dal potere giudiziario, dal quarto potere dell’informazione e da quel pezzo del mondo economico che controllando l’uno poteva influenzare anche l’altro). Da allora non c’è leader politico che non si sia bruciato le ali inseguendo il miraggio di risolvere tutto con l’ingegneria elettorale e istituzionale, con la lunga serie di sistemi concepiti per far sì che il primo classificato alle elezioni si portasse via tutto il cucuzzaro, logica che ha ispirato l’intera elaborazione politologico-elettorale dagli anni novanta a oggi, dal Mattarellum al Porcellum, passando per l’Italicum (con la parziale eccezione del Rosatellum, che conserva tuttavia il vizio di fondo di tutte le legge precedenti: le coalizioni pre-elettorali). Ciascuno di questi tentativi non ha fatto altro che facilitare, di volta in volta, il coalizzarsi di tutti i possibili avversari contro l’aspirante De Gaulle.
Sarebbe dunque davvero una buona cosa se negli anni, mesi o settimane che restano prima di nuove elezioni, i leader dei diversi partiti provassero davvero a riscrivere insieme le regole del gioco secondo un’altra logica, a cominciare da quel sistema proporzionale – senza premi di maggioranza e senza coalizioni pre-elettorali – che persino negli Stati Uniti cominciano a vedere come l’ultimo argine alla disintegrazione delle democrazie europee.