Tony Blair è tornato a mettere il dito nella piaga della sinistra che si piace ma non vince mai. Lo ha fatto mercoledì a Londra, in un’analisi spietata della sconfitta contro Jeremy Corbyn, colpevole di avere avuto una «indecisione quasi comica» sulla Brexit che «ha alienato entrambe le parti del dibattito, lasciando i nostri elettori senza guida o leadership». L’unico leader laburista ad aver vinto un’elezione nel Regno Unito negli ultimi quarant’anni ha spiegato cosa dovrebbe fare il Labour per tornare a essere un partito di sinistra moderno e progressista in grado di competere, vincere e mantenere il potere: lasciare quelli come Corbyn al margine. Secondo Blair, il segretario Labour «ha personificato un’idea, un marchio di socialismo quasi rivoluzionario, mescolando la politica economica di estrema sinistra con la profonda ostilità alla politica estera occidentale». La macchia peggiore? L’antisemitismo. «L’incapacità di affrontare questo tema è stata una cosa spregevole che ha lasciato in alcuni di noi il dubbio di votare laburista, per la prima volta nella nostra vita».
Dal 2017, l’ex premier inglese ha rotto il suo periodo di silenzio per convincere gli inglesi a cambiare idea sulla Brexit, ma è la prima volta che parla in modo diretto e propositivo del futuro del partito. Blair ha chiesto due cose. Primo, «un dibattito dentro e fuori il Partito laburista sul futuro della politica progressista. Un confronto tra laburisti tradizionali di sinistra e destra, i liberal democratici e coloro che sono disillusi dai partiti principali e quelli che attualmente non sostengono alcun partito. Secondo, impostare una nuova agenda politica per la politica progressista. Comprendere gli effetti della rivoluzione tecnologica, nuovi modi per affrontare la povertà generazionale e «misure molto specifiche per collegare le comunità e le persone lasciate alle spalle dai cambiamenti determinati dalla globalizzazione». Se non è un ritorno in campo, poco ci manca.
In ogni caso l’ex premier lancia un segnale che qualcuno dei candidati alla segreteria dei Labour potrà raccogliere. Difficile possa realizzare lui il programma in prima persona. Perché ogni volta che Blair parla, i social network agitano vecchi fantasmi: l’appoggio alla guerra in Iraq voluta da George W. Bush che ha causato la morte di 179 soldati britannici e 134mila civili iracheni fa passare in secondo piano il dibattito su che cosa potrebbe riprendere dalla sua esperienza di governo il Labour e in generale la sinistra europea. «Blair ha vinto tre elezioni consecutive perché ha offerto soluzioni reali ai problemi che preoccupavano le persone», spiega Matt Browne, senior fellow al Center for american progress e fondatore del Global Progress Summit, «investimenti in scuole e istruzione, infermieri, dottori e ospedali, riduzioni dei tempi di attesa per le operazioni. Problemi reali, piuttosto che grandi visioni idealistiche di un futuro utopico socialista».
Per ora però il Labour è ancora guidato da Corbyn che ha chiesto un periodo di riflessione dopo la peggiore sconfitta elettorale per il partito dal 1935. La battaglia per il controllo della leadership è già iniziata e per ora sembrano più gli iscritti leali alla linea del segretario. «Questo non è un mondo per centristi, che piaccia o meno. Per me Corbyn era un sintomo e per questo andava studiato, l’ho scritto diversi anni fa, e l’ho ripetuto (inascoltato) diverse volte. Spero che la reazione alla sua sconfitta e probabile uscita di scena non sia “scampato pericolo, si torna indietro”. Sarebbe a mio avviso un grave errore politico. Dobbiamo capire perché tanti giovani, spesso istruiti e con esperienza del mondo, hanno creduto in lui. Anche vedendone i limiti», spiega Mario Ricciardi, direttore della rivista Il Mulino.
I nemici di Blair e Corbyn però possono concordare su un punto. Né La Terza Via anni Novanta, ovvero una posizione politica che cerca il compromesso tra liberismo e socialismo né le vecchie ricette radicali sembrano adatte per rifondare la sinistra, sconfitta quasi in tutta Europa da partiti conservatori o sovranisti. «La terza via ormai è storia. Comprendo la nostalgia, io ero nel Regno Unito la notte in cui Blair vinse per la prima volta le elezioni. Ricordo bene l’entusiasmo e la vivacità dei primi anni di governo dei laburisti. Ma quelli della Cool Britannia non erano gli anni di un inizio, ma di una fine, erano l’ultima occasione per coltivare la speranza che si potesse tornare a qualcosa di non troppo distante dal “consenso socialdemocratico” nei primi trenta anni del dopoguerra. Ci sbagliavamo», spiega Ricciardi.
«Oggi abbiamo bisogno di modelli diversi, di un riformismo che sappia riscoprire le proprie origini, che affondano in un mondo in cui il conflitto distributivo era intenso, e i rapporti di forze non favorevoli a chi chiedeva una società più equa. Ma la storia ovviamente non si ripete, quindi non è semplicemente riscoprendo le radici che si va avanti. Bisogna costruire coalizioni sociali ampie, e affrontare problemi nuovi, come quelli legati all’ecologia. Su tutto questo c’è un enorme lavoro da fare, e l’esperienza degli anni novanta è una di quelle da cui imparare. Ma un modello no, non direi. La sinistra può avere un futuro solo se riesce a essere riformista e radicale. Come furono riformisti e radicali i fondatori del partito Laburista, e i suoi grandi leader del Novecento come Attlee, Wilson e, fino a un certo punto, anche Blair», conclude Ricciardi.