La transizione energetica verso un’economia low-carbon richiede ingenti investimenti nel settore rinnovabile. Investimenti che, tuttavia, stentano a decollare. I dati parlano chiaro. Nel 2018 i consumi globali di energia primaria sono stati coperti per l’81% da fonti fossili e solo per il 10% da fonti rinnovabili. Una quota modesta che negli ultimi vent’anni è cresciuta di appena tre punti percentuali. Sul fronte investimenti, le fossili si confermano le principali destinatarie della spesa energetica globale: tra il 2014 e il 2018, hanno rappresentato il 62% del totale investito mentre le rinnovabili appena il 18%. E non si prevedono inversioni di rotta: al 2040 le fossili sono attese ricevere più della metà degli investimenti globali, mentre gli investimenti in rinnovabili rimarranno stabili al 20%. Questo è il quadro che emerge dal World Energy Outlook 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) 1.
La situazione si presenta critica anche nel panorama nazionale. L’attivazione nel 2007 di un piano di incentivazione tra i più lauti al mondo (con il quinto conto energia si sono erogati tra il 2012 e il 2013 incentivi pari a 6,7 miliardi annui per vent’anni) ha favorito una crescita esponenziale della potenza fotovoltaica: da 0 a 19,6 GW, per un totale di quasi 728 mila impianti installati. Per contro, la cessazione dei sussidi al fotovoltaico si è riflessa in una contrazione degli investimenti, che crescono ad un tasso totalmente incompatibile con i futuri obiettivi energetici 2.
Nonostante i progressi tecnologici nel settore rinnovabile abbiano favorito una drastica riduzione dei relativi costi 3, le rinnovabili sono tuttora incapaci di penetrare spontaneamente nei mercati liberalizzati, dove le incertezze di prezzo si sommano alle incertezze intrinseche di una tecnologia per natura intermittente.
Negli ultimi trent’anni, la strategia politica adottata per superare i limiti del mercato è rimasta pressoché invariata. Diversi governi hanno siglato accordi internazionali di riduzione delle emissioni e cercato di indirizzare il mercato verso questi obiettivi attraverso il vecchio sistema del bastone e della carota. Da un lato, una regolazione tesa ad aumentare i costi delle fonti fossili 4; dall’altro incentivi per ridurre il costo delle rinnovabili (sussidi diretti, sgravi fiscali). Seppur necessarie, le prime misure (il bastone) si sono rivelate inadeguate (i prezzi europei della CO2 rimasti per oltre un decennio sotto i livelli attesi), mentre le seconde (la carota) sono state incapaci di innescare dinamiche di lungo periodo, vincolando il ciclo degli investimenti in rinnovabili a quello dei sussidi pubblici: l’investimento si fa con l’incentivo pubblico e si arresta in sua assenza, nell’attesa di nuovi cicli di incentivazione.
Cosa fare dunque? Come conciliare mercato e obiettivi politici energetici ed ambientali?
Lo Stato non è solo regolatore. Al contempo, è grande consumatore energetico e, in molti paesi, azionista delle principali imprese energetiche. Oltre a regolare i mercati e a disegnare tasse o sussidi ambientali, in veste di consumatore (si pensi a tutte le strutture della pubblica amministrazione, scuole, musei, ASL, tribunali, università, sedi di quartieri, comuni, province, regioni, ministeri) lo Stato dovrebbe prediligere il consumo di energia rinnovabile garantita dalla sottoscrizione di contratti di fornitura verde (green public procurement). Nella veste di azionista di controllo, lo Stato dovrebbe indirizzare il management delle imprese pubbliche verso strategie di investimento coerenti con gli obiettivi energetici ed ambientali sottoscritti in sede europea ed internazionale. Una strategia per la transizione low-carbon non può prescindere da questo triplice ruolo dello Stato nel settore energetico.
Le imprese pubbliche continuano a coprire in Unione Europea una quota rilevante di risorse e occupazione, specialmente nei settori dell’energia e dei trasporti (European Commission 2016). In Italia, le imprese a controllo pubblico rappresentano circa il 40% dell’intera capitalizzazione in borsa, e hanno generato, rispettivamente, il 52% e il 71,8% del fatturato totale del settore elettrico e dell’Oil&Gas (Clò et al. 2016) 5.
In molti guardano all’impresa pubblica con diffidenza, stigmatizzandola come il solito vecchio carrozzone. Non si vuole qui negare l’esistenza di imprese pubbliche inefficienti (così come ne esistono di private). Ma, diversamente da trent’anni fa, oggi non si può prescindere dal considerare le riforme che, negli ultimi decenni, hanno profondamente ridisegnato i mercati in cui le imprese pubbliche operano, nonché i loro assetti organizzativi interni. Nel settore energetico, il monopolio verticalmente integrato è stato da tempo superato, grazie a riforme che hanno aperto il mercato alla concorrenza. Inoltre, le imprese pubbliche hanno conosciuto modifiche sostanziali al proprio assetto societario. Sono divenute soggetti di diritto privato, vincolati alla normativa degli aiuti di Stato, caratterizzati da autonomia di bilancio vincolato. Diverse imprese a controllo pubblico sono state aperte al capitale privato attraverso collocamento in borsa.
L’apertura alla concorrenza e i nuovi modelli interni di management hanno esposto le imprese pubbliche a nuovi set di incentivi che hanno inciso positivamente su produttività e performance economica 6. Profittabilità e pareggio di bilancio sono divenuti obiettivi espliciti anche per le aziende a controllo pubblico, soprattutto per quelle miste tenute a rendicontare anche agli azionisti privati. Ma gli azionisti pubblici possono (dovrebbero) coniugare performance economica con altri obiettivi di interesse generale, come ricerca e sviluppo, qualità ambientale e sostegno ad investimenti capaci di generare importanti esternalità positive e al contempo garantire adeguati ritorni economici 7.
Condizionatamente alla volontà politica di perseguire un obiettivo ambientale, la gestione pubblica delle imprese energetiche potrebbe (e dovrebbe) rappresentare una strada complementare e più diretta rispetto alla regolazione per favorire una riduzione delle emissioni. Questo è vero anche a livello locale, dove le multiutilities attive nel settore dell’energia, dei rifiuti e dell’acqua potrebbero adottare strategie di investimento capaci di promuovere una nuova fase di penetrazione delle rinnovabili. Al modello dei sussidi scaricati in bolletta, rappresentato in Italia dal costosissimo Conto Energia, potrebbe sostituirsi (o quanto meno affiancarsi) un modello di investimento pubblico che bilancia finalità ambientali e ritorni economici; ritorni positivi ma non necessariamente allineati a quelli richiesti dai fondi di investimento privati. Quale sarebbe altrimenti il senso del controllo pubblico, se non perseguire l’interesse pubblico e investire laddove il privato non ha una sufficiente convenienza economica?
Nell’area OCSE si intravedono miglioramenti in termini di coniugazione di obiettivi ambientali ed economici. Tra il 2000 e il 2014, le imprese energetiche pubbliche hanno aumentato la quota rinnovabile sul totale capacità elettrica dal 9% al 23%; tuttavia, i due terzi degli investimenti nel loro portfolio sono ancora destinati alle fonti fossili. L’orientamento dell’impresa pubblica verso una impronta green si sta affermando, seppur lentamente, rimanendo tuttora inadeguato agli obiettivi ambientali e necessitando pertanto di un deciso cambio di marcia.
La seconda tipologia di strumento a sostegno delle rinnovabili è il cosiddetto green public procurement, ossia appalti verdi da parte della pubblica amministrazione. Gli strumenti adottati dai governi per incentivare la Ricerca e Sviluppo (R&S) e la diffusione di tecnologie innovative sono stati tipicamente rivolti alle imprese, quindi verso il lato offerta del mercato. Si pensi alla protezione della proprietà intellettuale, ai crediti d’imposta o i sussidi alla R&S. Negli ultimi anni, tuttavia, si sta consolidando la consapevolezza che il sostegno alle nuove tecnologie possa provenire anche dal lato della domanda, attraverso gli appalti verdi. La crescente attenzione che la politica sta riponendo verso lo strumento del public procurement può essere motivata dalla vastità della domanda del governo. Gli appalti pubblici rappresentano in media il 12% del PIL e il 29% delle spese pubbliche totali nei paesi OCSE (Appelt e Galindo-Rueda, 2016). L’indirizzo di parte di questa spesa pubblica per l’acquisto di prodotti verdi e servizi ambientali può rappresentare un importante stimolo per gli investimenti low-carbon.
I governi possono fare leva sul loro ruolo di grandi consumatori di energia, introducendo criteri volti alla riduzione degli impatti ambientali nelle politiche di acquisto di beni e servizi degli enti pubblici. Nella pratica, questo può tradursi in contratti di acquisto di energia rinnovabile, accompagnabili da accordi di lungo termine (Purchase Power Agreement -PPA) con garanzie di origine che certifichino la provenienza rinnovabile dell’energia acquistata. Una soluzione di mercato che, riducendone le relative incertezze, potrebbe promuovere un nuovo ciclo di investimenti.
Il pubblico che torna ad essere protagonista della sostenibilità ambientale può, quindi, essere realmente la carta vincente affinché gli investimenti verdi tornino a crescere a ritmi sostenuti e a dimostrazione che sostenibilità e profitto non sono necessariamente in contrapposizione. Questo impegno richiede però il miglioramento dei modelli di governance e di promozione di pratiche di trasparenza e accountability. Servono in definitiva una elevata qualità delle istituzioni e della regolazione e la volontà fattiva dei governi di investire nel settore pubblico risorse destinate a competenze e investimenti.
Note:
1 Queste dinamiche si riflettono nell’andamento delle emissioni di gas serra che, nel settore energetico, non accennano a diminuire. Nel 2018 hanno raggiunto un nuovo picco storico pari a 33,2 miliardi di tonnellate (Gt), +1,9% rispetto al 2017 (fonte AIE 2019). Ancora più preoccupanti sono gli scenari futuri. Secondo l’Agenzia, le emissioni potrebbero raggiungere i 35,6 Gt al 2040, più del doppio rispetto al livello previsto (15,8 Gt) dalla traiettoria ottimale che ci permetterebbe di centrare l’obiettivo dei 2°C previsto dall’Accordo di Parigi.
2 Obiettivi che richiederebbero un aumento annuo della capacità produttiva di 3 GW fino al 2030 (contro i 0,6 GW installati nella prima metà del 2019).
3 Secondo alcuni analisti, entro il 2030 le rinnovabili dovrebbero diventare più economiche del gas e del carbone.
4 Carbon tax o creazione di un carbon price attraverso il meccanismo europeo dell’Emissions Trading Scheme
5 Enel, Eni, Acea, Hera, A2A, Iren, perfino Edison (controllata dalla francese EdF), sono tutte imprese il cui principale azionista di controllo è un ente pubblico.
6 Si veda Borghi et al. (2016). Imprese pubbliche quotate che competono in mercati liberalizzati e globalizzati, hanno orientato le loro strategie verso modelli che sono caratteristici del settore privato in termini di struttura aziendale e orientamento alla redditività. Una classifica stilata da Fortune mostra che il numero di imprese di Stato nelle prime 500 aziende quotate a livello mondiale sia aumentato dal 9,8% nel 2005 al 22,8% nel 2014, con una crescita di dimensioni simili in termini di profitto, occupazione e altri indicatori di performance.
7 Per contro, nei servizi di interesse generale, le privatizzazioni hanno portato ad esiti diversi da quelli attesi: un generalizzato aumento dei prezzi (Fiorio e Florio 2013), una riduzione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo (Jamasb e Pollit 2011; Sterlacchini 2012), un peggioramento della performance ambientale (Clò et al. 2017). L’interesse dei nuovi azionisti privati è stato spesso rivolto più ai risultati trimestrali per una rapida copertura del debito. Un fenomeno (detto short-termism) difficilmente coniugabile con la strategia lungimirante che deve accompagnare la transizione energetica.
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