C’è una sola cosa rimasta uguale, nelle settimane in cui contiamo i prima, i dopo, i durante, ed è la mia vicina di casa. Abita, in realtà, a un paio di isolati dal mio condominio (calma, mi autocertifico: passo sotto casa sua perché è il tragitto obbligato verso il negozio di alimentari, l’edicola e i cassonetti), e ogni mattina si affaccia alla finestra, a intervalli di una decina di minuti, per urlare improperi ai passanti. La sua voce è uno dei rumori di sottofondo del quartiere, come i gabbiani, le auto o il treno che passa – il mio quartiere è assiepato sulla ferrovia. Però, mentre la frequenza e l’intensità di tutti gli altri suoni sono cambiate, l’appuntamento con la voce rauca e gracchiante della signora chiusa in casa è identico; ci insultava ieri, ci insulta oggi, ci insulterà domani. Ecco perché, mentre il tempo ha smesso di funzionare e le mie sveglie sono ferme, il mio orologio è la signora che ho sempre intravisto a malapena, dietro le persiane che apre per i secondi necessari a dirci quello che pensa.
Confesso: degli articoli che spiegano che il mondo non tornerà mai più come prima, non leggo neppure una riga. Mai perderei tempo a sentirmi dire cosa è finito e perché, con il risultato di accrescere il nervosismo verso qualcuno che sta guardando sbrigativamente dentro la mia vita con la violenza di un gesto inopportuno: metterla in ordine, usarla come uno schemino con uno spartiacque, l’immaginaria linea che separa un prima e un dopo, come se il corpo di prima e quello di dopo non fossero lo stesso corpo che sta attraversando la linea, che si sta trasformando insieme a quello che accade. Che assurda presunzione, pensarsi al di fuori, da qualche parte che non sia qui e adesso. Qualche giorno fa ho pensato a Leibniz e ai suoi mondi molteplici: «Poiché tutto è concatenato a causa della pienezza del mondo, ciascun corpo agisce su tutti gli altri, e ne subisce le reazioni, in misura maggiore o minore secondo la distanza». Dentro questa sfatta rotondità, tra le righe ho visto la parola pandemia.
Del resto, quasi nulla di quello che so della pandemia viene da quello che ho letto sulla pandemia. Dal primo mezzo mese di isolamento, ho imparato che tutti gli slogan hanno valore a rovescio. Leggo: #isolatimanonsoli, e penso che è vero l’opposto. Solitudine è una parola bellissima e isolamento una parola paurosa; sarà così per la cronaca, ma la letteratura deve ribaltare il linguaggio sanitario, non adeguarcisi: sto da sola, perché così mi è richiesto e così è giusto, ma non sto isolata, perché ho la mia biblioteca, la mia musica, molta immaginazione, una radio e un WiFi, vivo in un quartiere in cui le persone si guardano negli occhi e nel mio condominio le famiglie hanno appeso cartelloni con i loro nomi dai balconi, così quando ci affacciamo a stendere possiamo salutarci con un’allegria eccessiva che abbiamo appena inventato.
Leggo lo slogan #iorestoacasaeleggo e penso che per leggere si fa il movimento contrario: bisogna essere posseduti da una storia fino a desiderare nient’altro che chiudersi in casa per sapere come va a finire. Ecco uno dei motivi per cui in questi giorni non riusciamo a leggere o ci sembra di non farlo abbastanza, perché qualcuno ci ha detto: adesso siediti e fallo, sta’ lì e riempi il tuo tempo vuoto. Ma la lettura non riempie il tempo, semmai lo inventa. Bisogna leggere di nascosto, come contrabbandieri e farabutti, rubare tempo al lavoro agile, alle videoconferenze, alle feste in chat. La lettura ha senso se è clandestina, se erode e rosica spazi illegalmente e con una certa prepotenza, altrimenti è attività muscolare, allora di certo meno proficua di due salti davanti a un tutorial per gli addominali.
Sempre per lo stesso imperativo, ho difficoltà con il tracciare una linea, e non so ascoltare chiunque dica: prima era così, dopo sarà così. Forse ha ragione, ma io invece sento l’affanno del dovere in uno spazio di libertà. Non riesco a scorgere nessun orizzonte, però vedo con molto nitore il dito che lo indica e affannosamente lo cerca. Ma quell’orizzonte dov’è di preciso, quand’è che questo tempo finirà? La prima volta che usciremo di casa senza autocertificazione, abbracceremo una persona fuori dal nostro cerchio isolato, pianificheremo un viaggio, organizzeremo un concertino tra intimi, una manifestazione di piazza? La prima volta che andremo al cimitero a trovare qualcuno che è morto in questi giorni ed è stato sepolto senza funerale? La prima volta che scriveremo in coda a un messaggio: ti bacio, ti abbraccio, e nessuna battutina sul fatto che almeno on line si può fare? La prima volta che per un’intera giornata non avremo pensato al coronavirus? Il giorno in cui riapriranno le scuole? La sera in cui il presidente del Consiglio farà una diretta a reti unificate per autorizzarci di nuovo a fare l’amore, ognuno come gli va?
Possiamo continuare a pensare il tempo del coronavirus come un tempo di mezzo, ma rischiamo di non capire nulla né del passato né del futuro, perché ci immaginiamo dentro una frontiera lunga un millimetro oppure un chilometro e ci ostiniamo a non inventarci noi la nostra unità di misura. Forse invece è meglio usare questo slabbrato presente per metterci dentro i nostri vortici, passati e futuri, e contro la marea che ci è venuta incontro usare la stessa ariosa innocenza della protagonista di Suzy Lee nell’Onda, dove c’è una bambina che, grazie a un gioco con il mare, ridisegna i confini di sé e del suo corpo. Stanotte ho sognato qualcosa di simile: davanti all’acqua, lo slancio che avevo verso il momento in cui tutto sarà finito e la nostalgia che avevo verso tutto quello che avevo lasciato a metà sono diventati un balletto privo di intenzione, e quel gioco somigliava alle mie giornate più di analisi, previsioni, buoni propositi e contabilità. Mi piacerebbe essere così saggia da aderire alla proposta che mi ha fatto la mia vita onirica, ma ho anche io bisogno di linee, di giornate, di certezze, quindi domani alla solita ora, andando a fare la spesa, passerò sotto la finestra della vicina: per sentire che tutto sta cambiando, ho bisogno che quell’unica cosa resti com’è.