Ora che le misure restrittive sono state allargate dalla Lombardia al resto d’Italia, di colpo le autorità istituzionali hanno unito la propria voce a quella di medici e scienziati, raccomandando alle persone di stare in casa il più possibile e di allontanarsi soltanto in caso di reale necessità – ovvero per andare al lavoro o a fare la spesa. A Milano, però, il concetto di “Resto a casa”, sebbene sia diventato un hashtag virale, ancora fatica a entrare nella testa delle persone. E troppe se ne vedono ancora in giro, anziani compresi. Come se le regole valessero sempre per qualcun altro, come se tutti avessero sempre qualcosa di più importante da fare.
Psicologicamente, va detto, la situazione non è facile. Come racconta Armando Toscano, psicologo sociale esperto di dinamiche di comunità e di integrazione e manager nel terzo settore, le fasi della metabolizzazione di una novità come l’epidemia, che comporta una “sospensione della normalità” sono diverse. La prima è la negazione: non si riesce a capacitarsi di quanto viene comunicato (la gravità del virus, il bisogno assoluto di rimanere a casa), si pensa che la situazione sia gonfiata rispetto alla realtà, e che in fondo non c’è niente di male a uscire per fare un po’ di jogging. «Da un lato, le persone faticano a realizzare di dover cambiare il proprio stile di vita perché sono per natura contrarie a tutto ciò che mina la loro autostima – che sia andare al lavoro, incontrare gli amici o tenersi in forma», spiega Toscano a Linkiesta. «Dall’altro, la società del benessere in cui viviamo aggiunge un livello di complessità, perché siamo abituati ad un certo livello di agio e di garanzie, di diritti eccetera. Per cui rinunciarci suona come una privazione inaccettabile».
La seconda fase è quella della rabbia: l’imposizione di una restrizione non voluta da un lato, e il contatto prolungato tra le mura di casa con figli iperattivi o coniugi in ansia dall’altro, può far sorgere dell’aggressività in noi verso la situazione. Arriva poi la negoziazione: si cerca di scendere a patti, si dice “ah, se si fosse fatto in questo o quel modo”, ci si immagina scenari alternativi. Segue la fase della depressione – che, attenzione, «non è un termine negativo, significa che si “allentano le pressioni”», spiega l’esperto: in altre parole, ci si “rassegna” al fatto che bisognerà portare pazienza, osservare le norme igieniche e di comportamento e aspettare che il periodo di quarantena passi. Per ultimo, la fase dell’accettazione, ovvero il momento in cui si inizierà a convivere in maniera serena e costruttiva con le nuove condizioni.
Al momento – posto che non c’è una scansione temporale precisa, né che le tappe debbano susseguirsi necessariamente in quest’ordine – l’opinione pubblica sembra essere ferma sulla fase della negoziazione, tant’è che c’è ancora chi pensa di poter uscire di casa senza fare gran danno a sé o agli altri. «Una brutta etichetta, utile però per descrivere la realtà italiana, è quella del “familismo amorale”, cioè il principio per cui io cerco di salvaguardare me e i miei consanguinei a discapito di tutti gli altri», dice Toscano. È il principio che sottende gesti come quello, per esempio, di affrettarsi a salire su un treno già affollato per scappare dalla zona rossa, come successo nei giorni scorsi. «Da parte delle persone c’è la tendenza a non capire che dovremmo evitare queste azioni per salvaguardare gli altri oltre che noi stessi, perché potremmo essere portatori sani e infettare terze persone pur non presentando sintomi», prosegue lo psicologo.
In realtà, secondo Toscano, da un punto di vista comunicativo l’emergenza non avrebbe potuto essere gestita diversamente. «In Italia culturalmente siamo abituati, dopo aver ricevuto l’informazione, a confrontarci e a discuterne prima di digerirla. A differenza di altri Paesi come la Cina, dove un approccio top-down è normale, qui da noi se le misure che si stanno mettendo in atto adesso fossero state adottate anche solo una settimana fa, ci sarebbe stato molto più caos», dice. Una lenta presa di consapevolezza, insomma, è quello a cui stiamo arrivando. E se «non è facile indirizzare il comportamento collettivo in una società che discute molto», ammette lo psicologo, comunque il fatto che tutte le parti in gioco si siano confrontate, e che i cittadini siano stati aggiornati in tempo reale sugli sviluppi, ha contribuito a stimolare, almeno per una certa misura, la coscienziosità nelle persone.
Piuttosto, avverte l’esperto, nel prossimo futuro bisognerà tenere d’occhio crescenti livelli di razzismo. «Arriveremo a concludere che esistono delle categorie sociali che è meglio eliminare, perché portatrici di una sorta di fluido contagioso», spiega lo psicologo. A questo meccanismo emotivo lui stesso ha dato un nome: “fluido ontologico”, per l’appunto. «Non riuscendo a immaginare qualcosa di invisibile come un virus, che è un elemento microbiologico esterno che usa il nostro corpo per spostarsi, è più facile pensarlo come un fluido che passa da persona a persona. Perciò siamo portati a presumere che chi è più vicino a noi abbia il nostro stesso fluido, mentre tutti gli altri ne hanno uno diverso. L’abbiamo visto con i cinesi all’inizio: probabilmente vivono qui da anni e comunque non erano in Cina prima che iniziasse l’epidemia, ma per il fatto stesso di essere asiatici si è dedotto che fossero più esposti al virus. Un ragionamento totalmente antiscientifico, ma che corrisponde al sentire comune». Esattamente lo stesso che ci porta a pensare, ad esempio, che tutti i nostri cari siano automaticamente sani (ugualmente pericoloso), e che però rischia di portarci – «se non lo gestiamo adesso, prima di vederne gli effetti disastrosi», puntualizza Toscano – a stigmatizzare anche altri gruppi sociali più fragili. Come i senzatetto, che vivendo per strada sarebbero più esposti, o i migranti, per i quali stare in gruppo è una consuetudine sociale.
«Io, tra le mie attività, faccio counseling pre-test per le persone a cui va diagnosticato il virus dell’HIV. A volte alcuni mi dicono di essere tranquilli perché “sono andati a letto con persone per bene”. Ma il punto è che non è l’essere per bene o meno a determinare il fatto che il virus entri in contatto con il nostro organismo», spiega Toscano. Allo stesso modo, la discriminazione di determinati soggetti in relazione al coronavirus è una possibilità più che concreta. Tanto che per l’esperto «questi fenomeni ci saranno sicuramente all’approssimarsi della fine del contagio».
Se è difficile rassegnarsi alla necessità di rimanere a casa, ancora più difficile sarà prevenire questo genere di tendenze. Ma intanto, esserne coscienti può rappresentare un buon punto di partenza. Così come cercare di avere fiducia nella possibilità di sfruttare questo momento positivamente: «L’online ci apre un mondo enorme», conclude Toscano, «approfittiamone per recuperare contatti più autentici con i nostri legami, amici e parenti, per risolvere conti in sospeso, per lasciarci raggiungere dalle cose da cui di solito scappiamo. E poi studiamo: vanno bene l’evasione e le serie tv, ma sappiamo anche per esempio che il tema della formazione professionale è sempre in grande affanno. Perché non approfittarne, fare un corso online, e uscire da questo momento con più competenze e più forti di prima?». Il concetto, di per sé semplice, si chiama “fuga psicologica” e fa riferimento alla capacità della mente umana «di poterci far uscire rispetto alla situazione contingente in cui siamo, di rimanere fermi ma di viaggiare nello stesso tempo», dice lo psicologo. È nato dagli studi fatti sugli ebrei in fuga e nei ghetti al tempo del nazismo. Un periodo ben più duro di quello che stiamo vivendo adesso. Il che suggerisce una cosa sola: stare a casa è un sacrificio fattibile, anche perché limitato nel tempo. Possiamo farcela.