In Italia c’è un gran numero di imprese di piccola e piccolissima dimensione, cui si associa la quota più elevata di lavoratori autonomi tra i paesi avanzati. Le imprese italiane nel settore privato non finanziario hanno una dimensione media di appena 3,9 addetti contro i 6,9 dell’Unione Europea; quelle con meno di 10 addetti impiegano il 47 per cento degli occupati contro il 29 per cento medio dell’Unione. Le imprese sopra i 250 addetti sono molto poche e relativamente piccole, con una quota di occupati di poco superiore al 20 per cento contro valori superiori al 30 per cento nei principali Paesi europei.
La nostra struttura produttiva frammentata non è figlia del destino cinico e baro bensì delle scelte fatte nel Secondo dopoguerra. Allora fu preferito il “piccolo”, che si supponeva alimenti la “solidarietà”, alle grandi concentrazioni, che si supponeva fossero legittime solo se pubbliche. Insomma, la grande strategia del Secondo dopoguerra fu il “piccolo” preferito al “grande privato”, combinato con una spesa pubblica – per le pensioni, la sanità, l’istruzione – volta ad acquisire il consenso necessario per la modernizzazione democratica.
Le imprese piccole sono meno solide delle altre in caso di crisi. E con l’arrivo del coronavirus il sistema italiano, dove prevalgono le imprese piccole, è messo peggio di quello dei Paesi con un numero maggiore di imprese medio grandi. Ma non è tutto. In Italia prevale la combinazione di imprese piccole che hanno un debito molto elevato. Alla difficoltà nel pagare i lavoratori, se la produzione e quindi il fatturato si ferma, va aggiunto la difficoltà di onorare il debito.
Per tutte le economie prevale questa combinazione che rende molto difficile gestire la crisi da coronavirus:
— Il modello del just in time – il modello in origine della Toyota – per cui i magazzini sono riempiti al minimo, perché riforniti in modo continuo da imprese terze. Se si interrompe la fornitura a causa del corona virus, ecco che il magazzino resta vuoto e la produzione non può andare avanti.
— Il modello della global value chain, delle catene di valore globali. Con questa modalità organizzativa gli ingegneri californiani progettano il telefonino che gli operai cinesi producono con i processori coreani. Se il coronavirus sorge in Cina, allora niente telefonini. Se sorge in Corea, ancora niente telefonini. Se sorge in California di nuovo niente telefonini. Altrimenti detto, l’interazione avanzata rende vulnerabile la produzione globale.
Questi due modelli mettono in difficoltà tutte le economie al tempo del coronavirus, a cui si aggiunge un problema tipicamente italiano: il leverage, ossia l’indebitamento elevato delle piccole imprese che sono particolarmente fragili in caso di crisi.
Con l’arrivo del coronavirus tutte le economie vanno, in misura diversa, in crisi dal lato dell’offerta ma soprattutto dal lato della domanda. Quest’ultimo andamento è più facile da osservare perché i cinema, i ristoranti, gli alberghi sono vuoti o chiusi.
La crisi mondiale che ha all’origine l’arrivo di una variabile imprevedibile, il coronavirus, si sarebbe, per le ragioni dette – just in time, global value chain, leverage, comunque manifestata. Questo però vale come tendenza. Come accelerazione della tendenza ha agito la lentezza con cui sono stati decisi i molti provvedimenti necessari per schiacciare la curva di diffusione dell’epidemia – il flattening the curve.