Non vi tedieremo spiegandovi per la millesima volta quanto sia bello, rasserenante e rassicurante spararsi un’infilata di film su Netflix durante la quarantena. D’altronde non è che ci sia molto altro da fare, per cui in un certo senso diventa quasi un obbligo morale per sfuggire ai dibattiti televisivi o all’ennesimo talk show di cui non sentivamo la necessità. Il buon Netflix – che già prima del lockdown meritava un’ovazione e ora come minimo dovrebbe vedersi assegnato un Nobel per la pace – tra le numerose pieghe della sua offerta pressoché infinita vanta pure una selezione mica male di film a tema cibo, tra grandi classici e produzioni originali. Ce n’è un po’ per tutti i palat… ehm, gusti: onde evitare d’inciampare nella solita noia che è sempre dietro l’angolo ne abbiamo selezionati sette, diversissimi tra loro, che siete liberi di spalmare su una settimana o d’ingurgitare in un giorno solo. Tranquilli, il rischio indigestione è pressoché nullo.
Julie & Julia
È l’ultimo film scritto e diretto da Nora Ephron, e andrebbe visto già solo per questo. Aggiungeteci poi che Meryl Streep gigioneggia come solo lei sa fare; Amy Adams ancora sorride ed è (quasi) buffa; Stanley Tucci è adorabile nel ruolo del marito che qualsiasi donna vorrebbe avere. La storia ormai la conoscono pure i muri: da una parte c’è la monumentale Julia Child che impara i segreti della cucina francese alla scuola Cordon Bleu e decide di insegnarli agli americani con un libro che diventerà leggenda; dall’altra c’è Julie Powell, scrittrice mancata imprigionata in un call center, che sceglie di dare una svolta alla propria vita sperimentando in 365 giorni tutte le 524 ricette contenute nel libro della Child e raccontando l’esperienza in un blog. Componente nostalgica: correva l’anno 2009, e i blog di cucina avevano quel non so che (leggi: un’idea) in più.
The Founder
L’incredibile, imprevedibile, rocambolesca storia di Ray Kroc, l’imprenditore a cui dobbiamo la nascita di McDonald’s come oggi lo conosciamo. Regia di John Lee Hancock, un Michael Keaton strepitoso nei panni di Kroc, che svela la ricetta magica del successo: avere una buona intuizione, avere pelo sullo stomaco, non avere paura di calpestare il prossimo. In poche parole: essere un bello stronzo. Una lezione di capitalismo a suon di hamburger, milkshake e coltellate nella schiena, che tratteggia con uno sguardo acuto e impietoso «Il genio che ha fondato l’impero del fast food»: un genio del male, aggiungiamo noi, indipendentemente dal fatto che si sia fan o meno del caro, vecchio, Ronald McDonald.
Okja
Preparate i fazzoletti. Okja è il settimo lungometraggio di quell’adorabile matto che è Bong Joon-Ho (sì, esatto, l’autore dell’asso pigliatutto agli Oscar di quest’anno, Parasite), una favola ecologista distribuita da Netflix e co-prodotta da Plan B Entertainment, che in modo a tratti tenero, a tratti crudele, di certo mai scontato, solleva parecchi interrogativi scomodi sull’allevamento intensivo, sui prodotti OGM e sul nostro (spesso smodato) consumo di carne. Quando uscì sulla piattaforma, nel 2017, la critica si divise: per alcuni capolavoro, per altri furbata priva di spessore. Noi – beh, s’era capito – propendiamo per la prima ipotesi, sorretti pure da un cast che definire in stato di grazia è dir poco: Tilda Swinton; Paul Dano; Jake Gyllenhaal; Giancarlo Esposito e la stupenda Ahn Seo-hyun. Si piange, ma vi abbiamo avvertiti sin dall’inizio.
Chocolat
«Una peccaminosamente deliziosa favola comica»: certo, i titolisti italiani quando ci si mettono partoriscono opere che rasentano l’assurdo, ma cosa vuoi, Chocolat ha ormai vent’anni e all’epoca non eravamo così schizzinosi. Tratto dal romanzo omonimo di Joanne Harris, diretto da Lasse Hallström, il film è l’inno per antonomasia al cioccolato (ma toh) e all’arte pasticcera, capace di redimere anche i più incalliti fautori della tranquillité, del conformismo e del quieto vivere. Ci sono Juliette Binoche, Judi Dench, Johnny Depp, Alfred Molina, Carrie-Ann Moss e Lena Olin; ci sono state cinque nomination agli Oscar 2001, ma nessuna statuetta; c’è stato un costo 25 milioni di dollari e un incasso di 150. Della serie, al diavolo gli award.
Il buco
Opera prima dello spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, arrivata su Netflix a fine marzo, Il buco è stato da molti definito – a ragione – una perfetta allegoria della nostra attuale esistenza quarantenata. Un uomo entra in una sorta di torre-prigione dove si vive in due per piano; al centro di ogni piano c’è un buco che collega tutti i livelli e crea un’enorme tromba delle scale; di mese in mese ci si ritrova – senza che ciò segua alcun ordine logico – in alto o in basso sulla scala, al terzo piano o al centottantesimo. Dentro al buco, ogni giorno all’orario dei pasti, passa una piattaforma che si scopre essere una grande tavola: parte dal piano uno che è imbandita, e scendendo via via si svuota, lasciando agli abitanti dei piani inferiori soltanto piatti vuoti. Una riflessione tosta sulle gerarchie, sulla scala sociale, sulla solidarietà, in cui il cibo è sì un fine, ma pure un mezzo. Solo per stomaci forti.
Il sommelier
Niente di nuovo sotto il sole: la storia di riscatto afro vince (quasi) sempre, e se si considera che è dai tempi di Sideways di Alexander Payne che non avevamo un film dove il vino e la sua degustazione sono al centro della vicenda, beh, allora il gioco è fatto. Prentice Penny dirige una pellicola piuttosto tradizionale, che però non è nemmeno un brutto modo per staccare il cervello: Elijah (Mamoudou Athie) ha vent’anni ed è diviso tra due lavori, il primo in un negozio di vini e liquori, il secondo nel ristorante barbecue di famiglia, con il padre Louis (Courtney Bernard Vance) che vorrebbe cedergli l’attività perché ne diventi il titolare e la conduca nel tempo. A lui ovviamente del ristorante frega poco o nulla, ché sogna di diventare un Master Sommelier. Ok, avete già capito come andrà a finire: ci sta, e a volte va bene così.
Finché forse non vi separi
Un altro plauso ai titolisti italiani, che partendo da Always Be My Maybe sono arrivati a concepire Finché forse non vi separi. Sorvoliamo solo perché il film di Nahnatchka Khan è estremamente divertente e nemmeno troppo scontato: Sasha (Ali Wong) è una chef di fama internazionale, si trasferisce a San Francisco per aprire un nuovo ristorante e qui s’imbatte nel suo vecchio amico – ed ex fiamma – Marcus (Randall Park), musicista bamboccione che dipende ancora dal padre. Nessuno spoiler sul destino dei due (ex?) innamorati; se la trama vi sembra troppo mielosa, però, sappiate che circa a metà arriva un ospite inatteso – e con lui una delle scene più esilaranti viste ultimamente, ambientata in un ristorante stellato che propone «microverdure e lattughe incapsulate servite con alghe disidratate e fiocchi di pesce essiccati». Proprio vero che in fondo essere costretti a cenare sempre a casa non è poi così malaccio.