Nelle classifiche delle organizzazioni sanitarie internazionali gli Stati Uniti erano considerati il Paese più attrezzato per affrontare un’epidemia di vaste proporzioni. Nonostante ciò, e con tutto il tempo per prepararsi, avendo visto per settimane in tv i drammi della Cina e, poi, dell’Italia, l’America è stata travolta dal coronavirus finendo per pagare un prezzo addirittura superiore a quello di Paesi meno avanzati.
L’iniziale sottovalutazione del problema da parte di Donald Trump, gli allarmi snobbati o esorcizzati con battute infelici («è come una normale influenza», «una truffa dei democratici contro di me», «una mattina ci sveglieremo e scopriremo che il virus se n’è andato, miracolosamente») diventano armi da campagna elettorale in vista delle (incerte) elezioni presidenziali di novembre.
Ma dietro gli errori e i ritardi del presidente c’è molto altro: dall’inadeguatezza delle strutture federali che dovrebbero tutelare la salute dei cittadini, indebolite per decenni dall’ostilità ideologica nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con la pubblica amministrazione, a un modello di decentramento federale dei poteri che non prevede la possibilità, per il governo federale, di imporre comportamenti omogenei in tutto il Paese anche davanti a emergenze di estrema gravità.
Con due conseguenze: la competizione tra Stati per conquistare le limitate quantità di equipaggiamenti sanitari disponibili sul mercato con la conseguente, straordinaria, impennata dei prezzi (le mascherine passate in pochi giorni da 70 centesimi a 7 dollari al pezzo) e, poi, una specie di macabro gioco dell’oca dei focolai infettivi accesi, uno dopo l’altro, in giro per il Paese anche per colpa di scelte irresponsabili: quelle di governatori che si sono ostinati a non limitare la mobilità dei loro cittadini anche quando gli Stati vicini erano ormai da tempo in lockdown, consentendo così al virus di viaggiare indisturbato.
È il caso del governatore della Florida, Ron DeSantis, che all’inizio di aprile ha impartito l’ordine dello stay at home ai 21 milioni di cittadini dello Stato, tentando addirittura di impedire l’attracco in uno dei suoi porti di una nave da crociera con a bordo malati di coronavirus, ma che solo due settimane prima, a pandemia già dichiarata e con una parte dell’America già nella tempesta, lasciava ancora le spiaggie aperte per le feste studentesche dello spring break. Centinaia di migliaia di ragazzi che poi, cacciati improvvisamente via con l’ordine di chiusura degli alberghi, sono tornati nelle loro case a infettare genitori e nonni in tutti gli angoli del Paese.
Molti altri governatori conservatori dell’America «profonda» si sono rifiutati a lungo di adottare misure drastiche continuando a considerare la pandemia una burla montata ad arte dai democratici per defenestrare Trump anche quando il presidente aveva ormai cambiato registro e cominciato a combattere in modo serio contro il coronavirus.
Una logica che emerge con molta chiarezza da un editoriale pubblicato il 16 marzo da Ron Paul, il patriarca dei conservatori libertari: «Fa sorridere amaramente» scriveva l’ex candidato alla Casa Bianca «vedere i democratici che hanno tentato invano di abbattere Trump con l’impeachment, chiedere, un mese dopo, a questo stesso presidente di assumere poteri coercitivi molto più vasti su tutti i cittadini per combattere un virus che ha ucciso meno di cento americani». Paul additava poi il virologo della Casa Bianca, Anthony Fauci, come un seminatore di panico, vero motore di una campagna secondo lui infondata. Qualche settimana dopo, bersagliato dalle teorie cospirative di alcuni ultraconservatori e minacciato di morte, Fauci sarà costretto a muoversi sotto scorta.
Sei giorni dopo la pubblicazione di questo articolo, il coronavirus, nella sua galoppata senza freni, colpirà anche il figlio di Ron, il senatore Rand Paul. Ma il gene della prudenza deve proprio essere assente dal Dna della famiglia Paul: Rand, sospettando di essere malato, fa il test ma, mentre aspetta i risultati, se ne va tranquillamente a fare esercizi nella palestra del Senato, infettando tutto.
Anche qui si può, forse trovare una metafora – minima ma significativa – del declino di un sistema politico e istituzionale. Incalzato a lungo da un Parlamento che prende fin dall’inizio il coronavirus molto più seriamente di lui, Trump si decide finamente a ordinare la chiusura di tutti i luoghi d’incontro, palestre comprese. Il Senato applaude, ma continua a tenere aperta la sua.
L’ideologia anti-Stato che cancella la nozione di interesse comune
Come è già avvenuto con le politiche per l’ambiente, anche la lotta contro il virus diventa, a partire dal distanziamento sociale, oggetto di campagne ideologiche con gli integralisti evangelici che rivendicano il diritto di continuare a radunare migliaia di fedeli nelle funzioni domenicali in nome dell’insopprimibile libertà religiosa. Mentre le agenzie federali che dovrebbero vegliare sulla salute degli americani, come la CDC di Atlanta, falliscono nel loro compito per gli errori commessi, ma anche perché indebolite dai continui tagli di bilancio e dal peso di un’ideologia dominante che diffida di tutto ciò che ha a che fare col settore pubblico.
«Lo Stato è il problema, non la soluzione»: il fortunato slogan di Ronald Reagan incarnava la volontà di quel presidente americano di combattere gli eccessi burocratici e le tendenze ad allargare il perimetro dell’intervento dello Stato in economia che si erano affacciate anche in America negli anni Settanta del Novecento. Ma quella frase è poi diventata un mantra usato per decenni da liberisti e conservatori Usa anche nelle circostanze più estreme per emanare interventi di deregulation folli come quelli che hanno portato al crollo finanziario planetario del 2008 e per imporre una rigida logica di mercato anche in settori, come la tutela della salute pubblica, che hanno bisogno d’altro.
Alla radice della catastrofe umanitaria che ha travolto l’America c’è proprio la più grave delle derive fallimentari che stanno gradualmente compromettendo il grande esperimento politico economico e sociale americano che, sia pur tra contraddizioni e problemi insoluti, ha sempre offerto al mondo molte più luci che ombre. Gli Stati Uniti si sono ritrovati ad affrontare la pandemia arrivata dalla Cina a mani nude, incapaci per settimane di sottoporre malati e sospetti di contagio a un test banale.
Perché? Come in tutti i fenomeni complessi le cause sono molte, ma la principale, la più profonda riguarda la natura stessa del sistema sanitario americano costruito sull’idea che la salute sia una responsabilità individuale dei cittadini. Quindi non solo non è un diritto come sancito dalla Costituzione italiana e da quelle di altri Paesi europei, ma non è nemmeno concepita come un bene pubblico.
I rischi di una simile impostazione erano evidenti da anni, così come le sofferenze di decine di milioni di americani privi di ogni tutela sanitaria o curati in modo molto sommario. Ma c’è voluta la pandemia per far capire a tutti (o quasi) che esistono anche in campo sanitario e sociale interessi pubblici che vanno oltre le responsabilità individuali.
Il fallimento di un sistema che negli ultimi decenni ha imboccato derive disastrose in vari campi è stato illustrato plasticamente dalle conferenze stampa nelle quali Donald Trump è stato costretto ad ammettere che «la nostra sanità non è disegnata per affrontare situazioni come questa» invocando, poi, l’intervento dei laboratori privati di analisi cliniche per testare i pazienti di coronavirus: cosa avvenuta ma a «macchia di leopardo», con varie settimane di ritardo, per molto tempo senza un monitoraggio centrale e a costi assai elevati.
Il comportamento di Donald Trump può essere criticato da vari punti di vista per i suoi atti più visibili – dal rifiuto di riconoscere gli errori commessi ai toni da campagna elettorale usati anche nei momenti più drammatici della crisi – ma questa presidenza sta avendo un impatto profondo anche perché giorno dopo giorno ha spinto gli americani – non necessariamente solo quelli del fronte conservatore – a esprimere con sempre maggior forza la loro tendenza all’individualismo e a vivere l’economia di mercato come una partita spietata.
Anche qui il fallimento di una visione della società che non contempla un minimo livello di assistenza come un bene pubblico da tutelare nell’interesse collettivo è apparso evidente quando Trump si è dovuto affannare a promettere ai tantissimi dipendenti che non vengono pagati se non si presentano al lavoro che avrebbero ricevuto regolarmente lo stipendio anche rimanendo a casa in malattia: l’unico modo di evitare il contagio di addetti malati che vanno comunque in ufficio o in fabbrica per non perdere giorni di salario. Un interesse collettivo di tutela della comunità mai contemplato dal sistema sociale Usa.
da “Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti”, di Massimo Gaggi, Solferino Libri, 2020, 16 euro (più il prezzo del quotidiano)