Poche cose sappiamo con certezza. Sappiamo che i casi di Covid sono sicuramente superiori ai numeri ufficiali diffusi dalla protezione civile. Sappiamo che sono già morte, e stanno morendo, un gran numero di persone contagiate prima di aver fatto il tampone e prima di essere arrivate in ospedale. Sappiamo che c’è un sacco di gente a casa che presenta sintomi più o meno evidenti, e che altro non può fare se non aspettare che passi, sperando di non peggiorare. Sappiamo poi che non viene testato nemmeno il personale sanitario, che è a contatto con casi di Covid-19 tutti i giorni, finché non presenta sintomi gravi. Sappiamo di non poter fare tamponi a tutti, perché sarebbe impossibile testare 60 milioni di persone. Ma sappiamo anche che ci sono molte persone positive senza saperlo, che continuano ad andare al supermercato, al lavoro, in farmacia, e vivono a stretto contatto con altri. Sono problemi che valgono per tutto il Paese, ma a maggior ragione per la Lombardia, la regione più colpita dal coronavirus con oltre 44.000 casi.
Qualcosa in Lombardia è andato storto, e non perché si tratta della regione che ha fatto più tamponi di tutti (vero in termini assoluti, ma non in rapporto alla popolazione; al 1 aprile i tamponi erano 121mila su 10,4 milioni di abitanti). Secondo i dati elaborati da Gabriele Melino, tesoriere dell’associazione Radicali-Enzo Tortora di Milano, a partire dal 5 marzo e fino al 20 marzo, sempre più tamponi in Lombardia hanno dato un risultato di positività al virus, passando dal 19% al 41%. «Questo significa che sempre più si sta facendo il tampone a coloro che già sappiamo essere quasi sicuramente positivi, per cui non stiamo davvero controllando che il contagio non si propaghi», spiega Michele Usuelli, medico e consigliere regionale lombardo di PiùEuropa-Radicali, a Linkiesta.
Fin dall’inizio dell’epidemia, la Lombardia ha testato per il Covid-19 solamente coloro che presentano sintomi di infezione gravi (in parte vero per tutta Italia, ma è un altro discorso). Una scelta che influisce su morti e contagiati. A spiegare il perché è una lettera aperta indirizzata da 290 scienziati ai rappresentanti del governo e delle regioni: «Analisi matematiche dell’andamento dell’epidemia indicano l’esistenza di una percentuale di soggetti asintomatici o pauci-sintomatici con capacità di trasmettere il contagio superiore all’80% del totale degli infetti. Pertanto, i soggetti non sintomatici o lievemente sintomatici di fatto rappresentano la sorgente principale di disseminazione del virus nella popolazione».
Per arginare il virus bisognerebbe testare anche e soprattutto coloro che non sanno di esserlo. Piuttosto che testare soltanto coloro che hanno più probabilità di essere positivi, perché hanno sintomi gravi. A maggior ragione posto che negli ospedali ormai sempre più si ricorre allo screening clinico, tramite radiografie e Tac, per individuare i pazienti positivi e trattarli di conseguenza, ancora prima che arrivi il risultato del tampone. Testare tutti coloro che non presentano sintomi o ne hanno di lievi è impossibile, perché significherebbe fare tamponi alla maggior parte della popolazione, però non bisognerebbe nemmeno farsi ingannare dal fatto che in Lombardia (e più in generale in Italia) i numeri ufficiali siano in diminuzione. Perché quei numeri «non rappresentano il reale andamento dell’epidemia. Servono a sapere quante risorse stiamo consumando negli ospedali, per capire dove la sanità è più e meno sotto sforzo. Ma non servono a capire come sta andando l’epidemia», spiega a Linkiesta Enrico Bucci, docente di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia.
Soprattutto in Lombardia è ormai troppo tardi per monitorare l’andamento dei contagi dal punto di vista dei grandi numeri, quello epidemiologico. «Siamo già oltre il punto in cui possiamo pensare di identificare gli infetti», dice Bucci. «Per com’è andata, credo che la Lombardia non potesse fare di più. Avrebbe potuto farlo se si fosse identificato il virus allo stesso stadio del Veneto. In realtà è stato identificato almeno un mese e mezzo dopo. Quando si è saputo che in Cina era scoppiata l’epidemia, la Lombardia avrebbe potuto vedere se c’erano picchi di polmoniti anomale anche qui. E forse a quel punto avrebbe potuto attuare con successo la politica veneta, quella dei tamponi a tappeto e della blindatura dei comuni». Ma quando sono partite le misure restrittive, spiega Bucci, «il virus era già abbondantemente diffuso. Adesso lo stiamo inseguendo e paghiamo carenze che dipendono dal fatto che fortunatamente in passato non c’erano state epidemie. Ma ciò significa anche che non c’era stata una cultura di preparazione delle strutture sanitarie».
La Lombardia, in altre parole, oggi paga il prezzo di aver inizialmente sottovalutato il problema. Ma è proprio Bucci a spiegare come la prima fase dell’epidemia sia quella più pericolosa: «La Lombardia ha sbagliato inizialmente a dare messaggi contrari all’evidenza scientifica. Quando si sono scoperti i primi casi e si diceva “riapriamo Milano”, “non siamo la Cina”, sono stati messaggi provenienti dalla politica che vedevano il pericolo economico all’orizzonte e sottovalutavano quello sanitario. L’errore è stato limitarsi a bloccare i voli cercando di non spaventare l’opinione pubblica. Il fatto che l’esponenziale sia piatto all’inizio, non fa capire che il problema si manifesterà nel giro di poco con cifre altissime. Anche tra gli esperti bisogna ascoltare il consenso scientifico e non singole voci, ma su questo non c’è nessun esercizio da parte dei politici. Un virus che sorge in un posto può arrivare in qualunque altro punto del mondo. È un problema nuovo con cui dobbiamo fare i conti. Perché di epidemie ce ne saranno altre».
Bucci, in qualità di esperto, è stato ascoltato ieri al consiglio regionale della Lombardia. Insieme allo stesso Usuelli e a Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, è firmatario di un testo che indica i passi fondamentali da fare adesso (Linkiesta ne aveva già parlato qui). La strategia è la stessa che anche gli scienziati firmatari della lettera indicano. Per fermare l’epidemia, le prime azioni da intraprendere sono due: da un lato, assicurarsi che gli ospedali non siano luoghi di propagazione del contagio, facendo in modo che il personale sanitario sia testato costantemente per il virus. Dall’altro, razionalizzare la capacità di testing (non incondizionato, ma mirato, appunto) a coloro che sono più esposti e dunque per i quali ha più senso farli, aumentando per quanto possibile il numero di tamponi. Ed estendendo la possibilità di analizzarli anche a tutti i laboratori sul territorio che possono avere la capacità in termini di personale, macchinari e reagenti, per farlo, riducendo così il tempo di risposta dei test.
«Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida della estensione del contagio nelle popolazioni affette. D’altra parte, l’estensione a tappeto dei test diagnostici non è una strategia percorribile al momento attuale a causa dell’ampiezza della popolazione interessata, della limitata disponibilità di kit diagnostici prontamente utilizzabili e della limitata disponibilità di laboratori attrezzati per l’esecuzione del test», scrivono gli scienziati nella lettera. «Questo limite ci impone la necessità di mappare laboratori e aziende biotecnologiche adeguatamente attrezzati sul territorio nazionale da coinvolgere da subito per la messa a punto e l’esecuzione dei test sulle categorie ad alto rischio di infezione e alto numero di contatti: tutto il personale sanitario (medici, infermieri, personale di supporto ospedaliero, personale delle ambulanze, farmacisti, addetti alle pompe funebri); tutto il personale con ampia esposizione al pubblico e parte di servizi essenziali (personale di tutti i servizi commerciali aperti quali forniture alimentari, edicole, poste; autisti di mezzi pubblici e taxi; addetti alla pubblica sicurezza e a filiere produttive essenziali). Tecnologie commerciali e non commerciali per l’estensione del numero dei test sono disponibili da poche settimane e possono essere valutate, validate ed implementate su ampia scala in tempi ragionevolmente rapidi. Altre tecnologie possono essere rapidamente messe a punto per le fasi successive dell’epidemia».
A oggi, la Regione Lombardia dichiara di fare 5.000 test al giorno, che vengono analizzati in 22 laboratori, i quali lavorano alla loro capacità massima. «Ma i laboratori sono molti di più. Quindi usiamoli», dice Usuelli. Uscito dalla Commissione sanità del consiglio regionale lombardo, Bucci a Linkiesta ha dichiarato di aver riscontrato «interesse e persone preparate già dalle domande che facevano. La commissione sanità della Lombardia sta prendendo il problema dal giusto punto di vista, quello scientifico». Rimane da valutare quanto tempo occorrerà prima di implementare le misure necessarie.