Quale sarà il futuro della ristorazione? Alzi la mano chi non ha letto questa domanda sui media in questo periodo di programmazione della ripresa post lockdown; di fase due riferita anche alla ristorazione si fa un gran parlare, con scenari che descrivono una riapertura, quella sì, ma non certo un ritorno alla piena normalità, non da subito. Sacrosanta è la salvaguardia dei posti di lavoro per far sopravvivere i locali che oggi sono forzatamente chiusi: non si tratta solo di salvare insegne, luoghi velleitari o edonismi da celebrity chef. C’è fatica dietro una cucina, tanta, e storie di brigate numerose, silenziose e operose, di persone e di famiglie il cui futuro è incerto.
In questa fase di fermo molti chef non sono stati affatto fermi. Locali chiusi, è vero, ma gli esempi di operosità e di solidarietà sono stati tanti: dalla capacità di reinventarsi attraverso nuovi modi di raggiungere i clienti, alla volontà di mettere la propria professionalità al servizio degli altri, cucinando per ospedali creati dal nulla per gestire l’emergenza. Carlo Cracco, Philippe Léveillée e i fratelli Cerea i primi nomi che vengono in mente, ma non sono stati i soli a rimboccarsi le maniche della casacca da chef, a indossare la mascherina e a dimostrarsi generosi oltre che abili ai fornelli. Ci sono poi ristoranti particolari per i quali la chiusura totale non metterebbe tanto a repentaglio la sussistenza economica dei gestori, quanto l’esistenza fisica stessa dei clienti; luoghi che soddisfano un bisogno primario di chi è in difficoltà, riuscire a mettere assieme almeno un pasto caldo al giorno. Locali per i quali non è esistita fase uno, perché all’indomani della dichiarazione dello stato di emergenza sono direttamente passati alla fase due, quella che prevede una convivenza forzata col virus, senza interrompere mai completamente l’erogazione del servizio. Presi alla sprovvista, comprensibilmente impreparati, con tanta buona volontà, creatività, buon senso e coraggio hanno cercato un modo per restare aperti in sicurezza. Stiamo parlando di mense, refettori, ristoranti solidali che supportano chi è economicamente fragile o si è ritrovato ad esserlo in queste settimane.
Tre di queste realtà della scena milanese, molto diverse tra di loro, ci hanno raccontato la loro ricetta per reagire, soluzioni differenti, a unirle un denominatore comune: l’attenzione al prossimo, più forte della paura.
Se ti donano il pacchero usi il pacchero, se hai le penne usi le penne, da Fratelli San Francesco la generosità decide il menu
Maurizio Montana è il cuoco della mensa di Via Saponaro 40 a Milano della Fondazione Fratelli di San Francesco, attiva in città su più fronti della solidarietà. Ad oggi la struttura è chiusa, ma solo verso gli esterni che nel periodo pre Covid accedevano tramite una tessera magnetica; esiste però sempre una corposa comunità di ospiti che dormono nella struttura, la Casa della solidarietà, per i quali vengono erogati circa 300 pasti al giorno. A questi, ci racconta Maurizio, si sommano gli oltre 1500 pasti destinati agli altri centri di Fratelli San Francesco (comunità per minori con mamme e bambini, richiedenti asilo, persone senza fissa dimora). Per chi è ai fornelli il lavoro non manca di certo.
«Adesso siamo a un terzo dei numeri rispetto a prima» gli ospiti della struttura sono così tutelati, attraverso distanze di sicurezza con bollini a terra, guanti e mascherine. «A colazione, pranzo e cena abbiamo due grosse sale; prima un tavolo era formato da quattro persone, adesso i tavoli sono formati da due persone. Nessuna criticità nel far accettare le nuove misure, qualche borbottio all’inizio ma facilmente superato: «Occorre far capire che quello che si sta facendo è per il loro bene.»
Parlare di festa e festeggiamenti non è affatto fuori luogo, anche in questa situazione difficile «Per me le feste sono sacre!”» sottolinea Maurizio. A Pasqua non sono mancati pasta al forno, agnello con patate e monoporzione di tiramisù.
La generosità non si è fatta attendere ed è cresciuta, anche da soggetti nuovi «Non me lo aspettavo, continua Maurizio, abbiamo avuto belle donazioni da enti, tante aziende quasi sconosciute, ristoranti, fast food» ma se gli chiedi di fare una sorta di appello ti risponde così: «Non faccio appelli, a caval donato non si guarda in bocca, tutto quel che potete reperire e donare qui in qualche modo viene cucinato sempre, non viene buttato via nulla, già il fatto che qualcuno ti sta donando qualcosa vuol dire che vuole aiutarti.»
La cultura anti spreco è una ferrea regola di vita quotidiana da queste parti «se tu cominci a scegliere, mah questo sì, questo no…non è un ristorante, è una mensa, dove devono poter mangiar tutti». La creatività non viene meno, anzi forse ha una spinta in più. Proprio recentemente un grossista della grande distribuzione ha donato alla Fondazione dei gamberetti, da una donazione anonima sono invece arrivati i paccheri. Paccheri, gamberetti e zucchine la naturale conseguenza dalla cucina: «ma perché in quel momento lì avevo il pacchero» ammette serenamente Maurizio, «avessi avuto maccheroni o penne avrei fatto la stessa cosa».
Refettorio ambrosiano: la provocazione culturale di lavorare sullo scandalo dello spreco.
La Fondazione Caritas Ambrosiana interviene da anni a livello capillare, fin nelle piccole parrocchie della diocesi di Milano, con attività caritative.
Francesco Chiavarini, portavoce Caritas Ambrosiana, ci spiega che è da pochi anni che Caritas si occupa della promozione e gestione diretta di una cucina, e non a caso. «A Milano c’è una grossa attenzione sulle mense in cui sono molto coinvolti i frati. Dall’inizio del ‘900 sono gli ordini religiosi che a Milano si sono sempre preoccupati di garantire il servizio di mensa alle persone in difficoltà.»
Dal 2015 però, e non a caso in concomitanza con Expo dedicata al cibo, Caritas Ambrosiana è stata coinvolta dall’entusiasmo e dall’intuizione di Massimo Bottura. È nato così il Refettorio Ambrosiano che Chiavarini riassume in un’espressione come una “provocazione culturale” che lavora sullo scandalo dello spreco.
«L’idea è di cucinare il cibo con le eccedenze alimentari, recuperando quello che verrebbe scartato e trasformandolo in piatti di eccellenza, utilizzando creatività e capacità, prosegue, non la chiamiamo mensa perché un po’ diverso dalle mense per i poveri….un posto suggestivo nell’allestimento, si è insistito anche sulla bellezza e la cura del luogo, volevamo che fosse un posto di ristoro a tutti gli effetti. Non è un intervento di primissimo soccorso, non vuole essere quello, ce ne sono appunto altri, ma un servizio offerto all’interno di un percorso di recupero un po’ più ampio e strutturato.»
La struttura è aperta solo a cena, e ogni sera ospita novanta persone. Colti alla sprovvista come tutti dall’emergenza, dopo un primo periodo in cui è stato organizzato un servizio di asporto, grazie anche a numeri più contenuti, sono riusciti a riprendere il pieno servizio al Refettorio, come? Semplicemente scaglionando gli accessi in tre turni, è rimasto intatto il comfort per gli ospiti, tutti sono stati serviti, in fasce orario diverse e con la corretta distanza tra i commensali.
Se fin qui l’impatto Covid può sembrare relativo, la situazione cambia su altri servizi forniti da Caritas.
Sugli Empori della solidarietà ad esempio, ci racconta il portavoce Caritas, l’impatto si registra in maniera più evidente: si tratta di supermercati solidali dove si possono prelevare beni (prodotti ed eccedenze alimentari della grande distribuzione) con una tessera a punti distribuita dai centri ascolto.
«Dal periodo precedente alla crisi a oggi un incremento del 50% di generi alimentari distribuiti. E un aumento dell’utenza del 25%: nuove tessere di emergenza per un sostegno a persone che si stanno impoverendo a causa più che del virus della quarantena. Al giorno in media negli otto empori Caritas distribuiamo 5,5 quintali di generi alimentari.»
E ciò che non viene direttamente donato si acquista, con un sforzo economico ancora maggiore in questo periodo.
Se però chiediamo di cosa possano avere più bisogno ora la risposta è: «Ci servono dispositivi di protezione individuale: dobbiamo permettere a operatori, volontari e ospiti di poter erogare e usufruire dei servizi in condizioni di sicurezza. Abbiamo calcolato che per i prossimi tre mesi il fabbisogno sarà di 600.000 mascherine, abbiamo ricevuto una grossa donazione di mascherine dalla chiesa cattolica cinese, però sono 150.000.»
La città di Milano, religiosa, laica, istituzionale e privata si è fatta sentire, subito e in maniera decisa. «La diocesi di Milano ha istituito un fondo che l’arcivescovo ha voluto intitolare al patrono dei lavoratori e dei papà, san Giuseppe, per aiutare le persone che perdono il lavoro a causa del lockdown: lanciato il 22 marzo in un paio di settimane ha raccolto un milione di euro di donazioni da parte dei cittadini, cui si sono aggiunti i quattro milioni tra diocesi e comune di Milano, mi sembra un ottimo segnale…..la gente reagisce, le persone che sono in smart working e ricevono uno stipendio sanno di essere in questo momento dei privilegiati.»
Parla di “consapevolezza diffusa” Francesco Chiavarini, una buona notizia, siamo isolati ma non abbiamo le coscienze isolate.
Nutrire e mantenere vive le relazioni sociali, la sfida di Ruben.
Ruben rappresenta un caso unico a Milano, un concreto esempio di generosità privata: un ristorante solidale frutto dell’iniziativa di un uomo, Ernesto Pellegrini, e del gruppo Pellegrini che dirige. La Fondazione Ernesto Pellegrini ha creato un vero e proprio ristorante solidale e la definizione è tutt’altro che casuale. Clima conviviale, possibilità di sostare ai tavoli e scelta tra i piatti in menu, come in un vero ristorante. Solidale perché si rivolge a persone in difficoltà, spesso interi nuclei familiari. L’elemento simbolico che l’ha sempre distinto è stato il fatto di essere a pagamento, un euro simbolico a testa per gli adulti. Un solo euro che conta più del suo valore monetario, non tanto per chi lo riceve ma per chi lo paga, per la sensazione di ave dato un contributo a ciò che si sta ricevendo, anche un modo per la riacquistare sicurezza. Da queste parti, zona Giambellino a Milano, il virus ha avuto impatti forti e su più fronti. Ne parliamo con Christian Uccellatore, responsabile progetto Ruben.
«Dall’uscita della prima ordinanza la situazione è cambiata…siamo stati costretti a trasformare il nostro servizio. Abbiamo deciso di non chiudere, l’idea è quella di dover continuare a dare una risposta a persone che provengono da una situazione di fragilità economica, e questa emergenza non ha fatto altro che aggravare quel tipo si situazione. Abbiamo trovato una forma compatibile che per noi è stato l’asporto, non abbiamo chiuso neanche un giorno. Abbiamo introdotto misure di precauzione per evitare il contatto. L’aspetto relazionale da noi si è un po’ bloccato; manteniamo il minimo incontro al momento del ritiro che per le persone che vengono è nutriente quanto la cena, il tempo per un saluto e una chiacchiera molto rapida… Riusciamo a comporre per ogni cena quattro cestini, quattro menu». C’è comunque varietà di scelta, un po’ meno di prima. Il pagamento dell’euro simbolico a Ruben l’avevano abolito in questa fase di emergenza, poi sono stati gli utenti stessi a chiedere che venisse reintrodotto, quantomeno su base volontaria.
Ma il vero tema è la dimensione di interazione sociale che è venuta a mancare e che formava uno dei pilastri del progetto «ci siamo inventati altre forme. Abbiamo introdotto da subito una sorta di mini call center, chiamiamo tramite i nostri volontari le persone che hanno frequentato Ruben e che lo stanno frequentando. Una chiamata anche per rilevare qualche bisogno, per attivare servizi a distanza, se invece il bisogno è solo quello di ricevere una telefonata ogni tanto, stabiliamo alla fine della telefonata la frequenza del richiamo.»
È aumentata la domanda ed è anche cambiata un po’ l’utenza. «Si stanno affacciando alla nostra realtà situazioni magari meno in linea con le categorie di bisogno e di disagio cui eravamo abituati. Ad esempio ora iniziano ad andare in difficoltà anche piccoli commercianti, piccoli artigiani, partite iva. Anche Ruben ha subito dal punto di vista organizzativo un colpo, dei circa 140 volontari, dal giorno uno abbiamo esonerato gli over 60».
Nonostante le difficoltà, quest’anno Ruben ha rilanciato, rimanendo aperto anche a Pasqua, contrariamente agli altri anni, con un menu festivo per i propri utenti.
Se chiediamo a Christian Uccellatore di cosa hanno bisogno, non sono cose materiali alle quali fa riferimento «Ruben non accede a nessun tipo di eccedenza alimentare, sono tutte derrate alimentari del Gruppo Pellegrini. Il sostegno economico è tutto della famiglia e del Gruppo Pellegrini.»
La povertà di cui ci parla Uccellatore è anche sociale, impoverimento di legami e isolamento come conseguenze della povertà economica, povertà che Ruben ha l’ambizione di voler sconfiggere «siamo incubatori di legami sociali che poi si riversano sul territorio…ci siamo subito detti di dover trovare nuove forme per mantenere i legami attivi e traghettarli fino alla fine dell’emergenza. Abbiamo mobilitato una serie di risorse, magari prima un po’ sottovalutate, come ad esempio il sito internet e i social.»