Anni fa facevo il corrispondente dalle zone di guerriglia nell’America centrale, un ruolo che mi ha portato in molti posti terribili nella giungla. I miei giri al supermercato, come un flashback, mi riportano indietro a quelle esperienze. Raduno il mio equipaggiamento protettivo (mascherina, guanti, una rassegnazione fatalista) e senza speranza mi butto nell’ignoto.
Il supermercato ha dato l’incarico a uno degli addetti messicani di fare la guardia alla porta e gestire la folla. Ma la sua autorità non è riconosciuta da parte di tutti. La fila di persone sul marciapiede è un caos. Alcuni si fanno strada verso la porta e allora il commesso li rimanda indietro; cosa che li porta a far esplodere la loro ira nella mia direzione; cosa che, a sua volta, mi porta a ritrarmi per timore del suo respiro; cosa che, a sua volta ancora, spinge la gente dietro di me a indietreggiare ancora di più. Il commesso è furioso.
Dentro, i corridoi sono pieni di gente. La coda alla cassa è una mischia di football. «Il prossimo!», dice il cassiere, e i clienti si ammassano spalla a spalla, nel tentativo di mettere all’opera le rispettive carte di credito. Ed eccomi qua, di nuovo sul marciapiede, con in mano i sacchetti degli alimenti, mentre faccio il calcolo di tutte le facce che si sono avvicinate a pochi centimetri dalla mia, di quante superfici ho toccato, mentre cerco di capire di chi sia la colpa. Del direttore, immagino. O dei clienti sconsiderati. È colpa del presidente degli Stati Uniti. Torno a casa furioso nei confronti di quell’uomo, tenendo stretti i miei sacchetti e cercando di non rompere le uova. Oddio: non mi sarò dimenticato di comprare qualcosa?
(Articolo pubblicato in inglese su Tablet)