Addio società apertaIl coronavirus ci renderà prigionieri dell’effetto cocooning («chiudersi nel proprio bozzolo»)

Dopo l’emergenza arriverà un isolamento globale. Ognuno troverà conforto nel suo guscio: dalle pareti domestiche al campanile, fino ai reticolati dello Stato sovrano

Beppe Severgnini è avvertito, e con lui gli altri guardiani del linguisticamente corretto. Dopo lockdown e smart working un nuovo anglismo potrebbe presto entrare nel gergo della nostra patria: cocooning. Questa volta non è un anglismo fasullo inventato da noi, ma un termine regolarmente certificato dal dizionario Ragazzini: significa «chiudersi nel proprio bozzolo» o «starsene nel proprio guscio».

Un’attitudine che ci hanno imposto i decreti Conte dal 9 marzo in poi, ma che potremmo autoinfliggerci anche nella fase due, facendone uno stile di vita permanente. In questa parola, cocooning, sono incocciato per caso sfogliando un vecchio libro di William Sherden, The Fortune Sellers. The Big Business of Buying and Selling Predictions, pubblicato da Wiley nel 1998: un provocatorio atto di accusa contro il business della futurologia, dal meteo alla finanza. È stata appunto una futurologa allora molto in voga negli States, Faith Popcorn, detta la Nostradamus del marketing, la prima a parlare di cocooning in un suo articolo del 1991.

Nessun riferimento al film Cocoon, dove un grosso bozzolo di vita extraterrestre caduto in piscina restituiva la giovinezza agli ospiti di una residenza per anziani, facendoli correre e saltellare come ventenni. Semmai proprio il contrario. Il cocooning, per la Popcorn, consiste in una specie di ritirata vegetativa dettata dalla paura: «L’impulso a stare dentro quando l’andare fuori si fa troppo difficile e pericoloso. A costruire un guscio di sicurezza intorno a sé per non essere in balia di un mondo malvagio e imprevedibile. Cocooning implica isolarsi e schivare i contatti, cercare pace e protezione, intimità e controllo, una sorta di iper-nidificazione».

La signora Popcorn in realtà si chiama Plotkin e non si sa perché abbia scelto questo pseudonimo da cartone animato (forse pensava di mangiare popcorn assistendo all’avverarsi delle sue profezie).

Di sicuro non le fa difetto l’autostima: si vanta di avere 180 di IQ (il genio parte da 140) e giura che le sue predizioni sono accurate al 95 per cento. Il cocooning, insinua Sherden, evidentemente rientrava in quel 5 per cento, visto che dal ’91 in avanti ristoranti, pub, centri commerciali, palestre e voli low cost non hanno fatto che aumentare il loro fatturato. Trincerarsi nel proprio guscio, imbozzolarsi, non sembrava proprio il mood prevalente dell’umanità, quanto meno nel mondo sviluppato.

Poi però è arrivato il coronavirus, e la “Popcorn prophecy” si è inopinatamente realizzata su scala globale. Miliardi di individui in quarantena, privati del diritto alla mobilità. Ognuno prigioniero del suo cocoon. La Nostradamus del marketing è stata dunque l’unica, insieme a Bill Gates, Quammen e qualche epidemiologo, a pronosticare la pandemia, e adesso si sta mangiando i popcorn sul divano tutta contenta di averci azzeccato?

Ovviamente no, quando scrisse quell’articolo lei non aveva certo in mente un virus, semmai un generico riflesso securitario, un’introversione dettata da altre paure, come la criminalità, il terrorismo, la guerra. Ma chissà che i fatti non finiscano per darle ragione.

Secondo un tuttologo molto trendy, lo sloveno Slavoj Žižek, da questa crisi emergerà «un nuovo senso di comunità: stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni». Sulla stessa lunghezza d’onda il filosofo Aldo Masullo, 97 anni: «Come c’è la pan-demia, c’è la pan-patìa, uno stato di sofferenza non individuale ma collettivo».

Anche monsignor Guido Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sostiene che grazie al Covid «abbiamo scoperto che l’incolumità di ciascuno dipende da quella di tutti» e che questo non potrà che portare a «un rinnovato legame sociale, fondato sulla fraternità universale».

Stiamo assistendo a «un paradosso che non avremmo mai immaginato: per sopravvivere alla malattia dobbiamo isolarci gli uni dagli altri, ma se dovessimo imparare a vivere isolati gli uni dagli altri non potremmo che renderci conto quanto il vivere con gli altri sia essenziale per la nostra vita». E Antonio Spadaro su Civiltà Cattolica cita papa Francesco: «Non essere costretto dallo spazio più grande, ma essere capaci di stare nello spazio più ristretto. Questo è divino». Stare in casa è difficile, ma «prepara a tempi migliori». La crisi del Covid-19 è un’opportunità di conversione sociale, economica ed ecologica.

Magari fosse vero. Naturalmente ci auguriamo tutti che il papa abbia ragione. Ma come dice Edgar Morin, «la prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia». Anche nel 1919, dopo il trattato di Versailles, tutti si aspettavano una conversione in massa dei popoli e la fine di tutte le guerre. Solo Keynes vide con lucidità che «le conseguenze economiche della pace» sarebbero state catastrofiche. 

Quella che stiamo vivendo oggi è una situazione completamente diversa, e non ha precedenti nella storia. Quali saranno le conseguenze, non solo economiche, ma sociali, psicologiche e morali, della “Fase due”? Che succederà quando potremo finalmente mettere il naso fuori dal nostro cocoon? Non è detto che ne usciamo migliori e più solidali.

Forse ricominceremo a non salutare i vicini di casa (del resto, pare che lo facciano tipicamente i serial killer) e anzi eviteremo di prendere l’ascensore con loro. Staremo alla larga dai mendicanti, specialmente se di carnagione scura. E Dio sa se e quando rimetteremo piede in un ristorante cinese. Dopo due mesi di arresti domiciliari, ci avventureremo guardinghi e impauriti in un mondo disseminato di insidie, attenti a ogni bip del nostro smartphone. Per poi tornare a imbozzolarci più in fretta possibile. Senza pensare che il prossimo focolaio potrebbe nascondersi proprio lì, dentro al bozzolo che ci sembra così sicuro.

I segni di un’ondata incipiente di cocooning sono già ben visibili. Trump che blocca le Green Card dei migranti «per proteggere i posti di lavoro dei nostri GRANDI cittadini americani», Vincenzo De Luca che minaccia di chiudere i confini della Campania ai turisti del nord Italia, il presidente del Piemonte Alberto Cirio che sottolinea polemicamente il «perfetto stile sabaudo» con cui ha costruito un nuovo ospedale da campo, per non parlare delle mascherine identitarie con stemma della Regione regalate ai veneti da Luca Zaia, o di quella tricolore indossata da Giorgia Meloni (così è chiaro che non gliel’ha prestata il Mes, che quelli non sai mai cosa ti chiedono in cambio), o del sovranismo padano di Attilio Fontana, vero principe dei cocoon (parla con la mascherina sulla bocca perfino nelle dirette Facebook dal salotto di casa) che non perde occasione per esaltare l’operosa e infallibile cultura dei lumbard, travolti da un insolito destino.

Addio società aperta, il Covid ci fa scivolare nella società imbozzolata. A ognuno il suo bozzolo: dalle pareti domestiche al campanile e alle radici etniche, fino ai reticolati dello Stato sovrano. Attenzione però che Cocoon fa rima con Platoon. Un altro anglismo che in genere non promette niente di buono.

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