George Steiner non ha vie o piazze dedicategli: non ancora. Il critico e intellettuale francese di origini ebraiche, nato da padre ceco e madre austriaca, è morto lo scorso 3 febbraio, a Cambridge. Aveva 90 anni. Eppure accadrà, forse nella sua Parigi, dove era nato e che a 11 anni lasciò con la famiglia, per sfuggire all’antisemitismo nazista: accadrà che a una rue, un passage, una place seguiranno il suo nome e gli estremi anagrafici: 1929-2020. Sarà difficile definirne il ruolo: critico letterario, scrittore, filosofo, storico della cultura, comparatista. Sarebbero tutti corretti e tutti riduttivi.
Il nome di George Steiner inciso nella toponomastica dirà in ogni caso poco di lui, ma molto della cultura di chi passeggerà quotidianamente in quelle strade. Le ragioni le spiega lui stesso in “Una certa idea di Europa”, un discorso pronunciato nel 2003 all’olandese Nexus Institute e pubblicato in Italia da Garzanti.
Solo in Europa, afferma Steiner, la toponomastica fa da grancassa ai personaggi, alla memoria e alle azioni che la storia dei luoghi tramanda. Goetheplatze, Adornoplatz o piazza Garibaldi negli Stati Uniti sarebbero identificate da un numero o dal nome di un albero. Che si tratti di eventi gloriosi o pagine buie, in ogni angolo del Vecchio continente insieme ai passi di chi vi cammina oggi riecheggia l’eco dei corsi e ricorsi della Storia, e «leggere i nomi delle strade significa sfogliare il nostro passato prossimo».
Persino nei quartieri distrutti e ricostruiti di Varsavia o nella città di Dresda polverizzata e riedificata si è tentato di ricreare fedelmente ciò che esse erano state per secoli. «Quando Paul Celan si è gettato nella Senna per suicidarsi ha scelto il punto esatto cantato dalla grande ballata di Apollinaire, e questo punto si trova proprio sotto la finestra della stanza in cui Marina Cvetaeva ha passato l’ultima notte prima di tornare alla desolazione e alla morte in Unione sovietica», racconta Steiner.
«Un europeo colto si trova intrappolato nella ragnatela di un in memoria luminoso e insieme soffocante». Le praterie vergini della geografia e dello spirito americano da noi sono luoghi già mille volte calpestati da personaggi che hanno fatto cose troppo grandiose da poter superare o troppo orrende da poterci permettere di dimenticare.
Un altro elemento in cui secondo Steiner alberga la peculiarità europea sono i caffè, «luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo», si tratti di quello di Fernando Pessoa a Lisbona o quelli di fronte a cui passeggiava Kirkegaard.
«Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali della “idea di Europa”». Il nostro Paese non fa eccezione: dai caffè triestini in cui un irlandese spedito in città controvoglia scriveva i primi capitoli del capolavoro che avrebbe cambiato la letteratura mondiale, “l’Ulisse”, a quelli milanesi protagonisti delle zuffe messe su tela dai futuristi, dal fiorentino caffè delle Giubbe rosse al veneziano Florian.
Altro paradigma distintivo del Vecchio continente è il camminare, reso possibile dalla scala ridotta delle distanze, il cui ritmo scandisce testi e pensieri che nascono in Europa. La conferma in questo caso va cercata nello sguardo degli altri, dei turisti per esempio: «per loro i paesaggi europei hanno subito una sorta di manicure, i nostri orizzonti li soffocano», scrive Steiner.
Le città sono distanziate l’una dall’altra da una giornata di cammino, nessun canyon invalicabile, landa minacciosa o foresta impenetrabile a separarle, persino il cielo sembra addomesticato. Il paesaggio è misura dell’umano e la Storia, da Alessandro Magno a Napoleone, si è sempre scritta marciando da una parte all’altra del continente. La controprova l’hanno vissuta sulla propria pelle tutti gli eserciti europei che tentarono campagne militari in Russia, illudendosi che anche lì si potesse giocare con le stesse regole.
Quarto assioma della cultura europea: la doppia eredità di Atene e Gerusalemme. Le radici greche ed ebraiche, ora sincretiche ora conflittuali, generarono secondo Steiner «tre ricerche, o tre assuefazioni, o tre giochi, che hanno tutta la dignità della trascendenza», cioè la musica, la matematica e il pensiero speculativo.
Infine, la consapevolezza e il senso della fine che, per Steiner, costituisce il quinto e ultimo elemento distintivo della cultura europea. Quella fine e quell’Apocalisse che negli stermini della Seconda guerra mondiale e nei conflitti balcanici sembravano aver trovato il loro compimento.
E adesso?, si chiede George Steiner dopo aver definito ciò che l’Europa è sempre stata ma viene messo ogni giorno alla prova dal colonialismo culturale straniero e dalle tensioni interne. «Forse ci siamo fatti alcune domande sbagliate», provava a rispondersi. «Forse il futuro dell’“idea di Europa”, se ne ha uno, dipende meno di quanto siamo portati a credere dalla Banca Centrale e dai sussidi all’agricoltura, dagli investimenti in nuove tecnologie o dalle tariffe comuni».
E se anche tutte questi elementi fossero determinanti, nessuno di essi potrebbe ispirare l’animo umano, conciliare le ostilità e motivare la cooperazione in senso federale.
Steiner esclude valga la pena competere con gli altri attori internazionali sul piano economico, militare, demografico, industriale o geopolitico: tutte partite in cui l’Europa difficilmente potrà dare scacco matto agli Stati Uniti o all’Asia. I campi in cui il Vecchio continente può vincere sono invece quello della realizzazione della conoscenza, della ricerca disinteressata del sapere e della creazione della bellezza.
Questo per lui significa domandarsi perché la fama di un calciatore preceda quella di Shakespeare o Darwin nella classifica del patrimonio nazionali secondo i giovani inglesi. Significa non permettere che le istituzioni culturali, le librerie, le sale da concerto, i teatri debbano lottare per sopravvivere.
Significa infine fare di tutto perché i migliori scienziati, musicisti, architetti e studiosi d’Europa restino nel continente e qui creino e facciano ricerca («potremmo iniziare a pagarli decentemente», annotava, «in questo senso sono un materialista!»).