Il commissario Domenico Arcuri ha ricevuto nella giornata del 15 aprile il mandato per avviare la procedura pubblica per la ricerca e l’acquisto dei test sierologici per gli anticorpi del coronavirus. Devono avere, almeno così dice il vicedirettore dell’Oms e membro del Comitato tecnico-scientifico Ranieri Guerra, una «attendibilità superiore al 95%» (quella totale è un miraggio) e devono funzionare con prelievi da sangue venoso e non capillare. I tempi sono stretti: due giorni, poi si parte.
Era ora. Perché, nonostante manchi il via libera da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, nel Paese la corsa ai test sierologici è già cominciata da tempo. La Toscana li fa già. Usando un metodo elaborato da Diesse Diagnostica Senese, ha cominciato dagli operatori sanitari, e allargherà la platea a tutti i lavoratori che hanno prestato servizio anche dopo il blocco dell’11 marzo. Totale: 400mila persone. I test prevedono la collaborazione di 61 laboratori privati. La Regione ne fornirà loro 250mila, per effettuarne 10mila al giorno «Li proporremo a chi vorrà riaprire», ha aggiunto il 16 aprile. «Chi risulterà positivo avrà anche il test molecolare», a conferma dell’accordo raggiunto con gli industriali per la ripartenza della fase 2.
Anche in Emilia Romagna sono partiti, ma solo sottoponendo all’esame medici e infermieri – ogni test effettuato da privati, però sarà bloccato: «Non si tratta di una curiosità», ha ribadito nella diretta del 15 aprile il commissario regionale per l’emergenza sanitaria Sergio Venturi.
Nel Lazio era stata annunciata la partenza «subito dopo Pasqua», con un test su 300mila persone. Ma l’assessore alla salute Alessio D’Amato ha dovuto fare retromarcia: «Si slitta a maggio», in mancanza di metodologie chiare a livello nazionale. Ha comunque precisato che gli esami condotti nei laboratori privati «hanno poco senso», in mancanza di standard comuni, e sono «immorali» perché chiedono soldi ai cittadini in mancanza di un riscontro scientifico certo.
Più sicuri, invece, sono in Lombardia: la Regione aveva annunciato che il 21 aprile si comincerà, 20mila test al giorno partendo dalle province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi. Confida che a breve il test da loro prescelto, cioè quello messo a punto dalla Diasorin insieme al Policlinico San Matteo di Pavia (e guardato con attenzione anche dagli Stati Uniti) riceva tutte le validazioni necessarie: secondo i medici che lo hanno utilizzato arriva al 96% come dato minimo, per cui sarebbe molto affidabile. E se il Veneto si affida al test della cinese Snibe Diagnostics, commercializzato in Italia da Medical Systems, e lancia una sperimentazione sul personale sanitario, il Friuli Venezia Giulia va cauto: aspetta e intanto proibisce le inizative dei privati.
Ma non ci sono solo le Regioni. Giusto il 15 aprile Beppe Sala, sindaco di Milano, ha annunciato che li effettuerà sui 4mila dipendenti Atm, anche in risposta alla “dimenticanza” della disposizione regionale. In alcuni paesi si fanno da settimane, come a Robbio, nel pavese, dove sono organizzati gazebo nelle palestre, o a Cisliano, vicino a Milano, oppure ancora a Nerola, uno dei primi focolai nel Lazio, dove insieme ai tamponi sono stati effettuati test a tappeto, sia rapidi che quantitativi, con pochissimi falsi positivi.
Per non parlare dello scatto in avanti delle aziende: Tecnostrutture in Veneto, Ferrari e Ducati in Emilia, hanno già presto i kit e cominciato i test sui dipendenti. La Sbe di Monfalcone, invece, è stata bloccata dalle disposizioni regionali.
Insomma, c’è chi va e chi aspetta. Chi fa piani e chi frena. Non manca chi specula (come alcuni laboratori privati) e chi, come Massimo Galli, primario di infettivologia al Sacco di Milano, allarga le braccia. L’Istituto Superiore di Sanità lancia moniti, in un caos nazionale che, tra ritardi e iniziative personali, sembra essere l’unica certezza di questa emergenza.
Il problema principale, come spiega a Linkiesta Fabrizio Pregliasco, attuale Direttore Sanitario dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, è che al momento i test non sono davvero affidabili. «A differenza del tampone, che serve a rilevare la presenza del virus nell’organismo di una persona, il test sierologico serve a scoprire la presenza di anticorpi relativi al virus». Già questa sofisticazione lo rende più difficile, perché più che una fotografia della situazione ne fa un film. «Gli anticorpi sono di due tipi: gli IgM e gli IgG. I primi si manifestano 4 o 5 giorni dopo i sintomi ma calano con il tempo per fare spazio agli IgG, che appaiono dopo due settimane, sempre partendo dai sintomi».
Per cui i risultati di laboratorio possono essere ambigui: se non si manifestano né IgM né IgG può voler dire che non si è contagiati oppure che si è ancora nelle fasi iniziali del contagio (prima dei sintomi). Per capirlo, serve il tampone.
Se si manifestano gli IgM e non gli IgG, vuol dire che il contagio è avvenuto, e si è in una fase precoce della malattia. Se ci sono entrambi, vuol dire che l’infezione è in stato avanzato, mentre se gli IgM sono assenti ma ci sono gli IgG può voler dire che si è nella fase finale della malattia oppure che, per fortuna, ce ne si è liberati (ma anche qui serve il tampone per stabilirlo).
«In un quadro così complesso, il rischio di risultati falsati è alto», con conseguenze importanti. Anche perché l’indagine il test sierologico ha finalità generali, «epidemiologiche», e inquadra il dato nel suo insieme per trarne conclusioni generali. Da qui la necessità di dati coerenti su tutto il territorio nazionale, su cui si sta lavorando.
In tutto questo caos, resta sempre vivo il sospetto che anche questo disordine, con un minimo di coordinamento in più e forse qualche task force in meno, avrebbe potuto essere evitato. Non è lunare: è ciò che avviene in Germania. Nonostante sia un Paese diviso per Land, lì il piano è uno solo, coerente e valido, appunto, per tutto il territorio nazionale. Anche il test sierologico segue questo schema.
Come spiega Lothar Wieler, a capo del Robert Koch Institute, è diviso in tre parti: esami delle donazioni del sangue (se ne occupa il Robert Koch Institute) , test in alcune aree del Paese colpite in modo massiccio dal virus (tocca al Charité Hospital di Berlino), studio rappresentativo della popolazione generale (Centro per la ricerca infettivologica di Braunschweig).
L’obiettivo è sempre lo stesso: scoprire quanti tedeschi siano immuni al virus e stabilire le dimensioni «del numero di asintomatici», cioè quelli che hanno contratto l’infezione senza nemmeno accorgersene. Sono elementi fondamentali per definire il tasso di mortalità (e di letalità) del virus.
Nel primo studio, cominciato questa settimana, ogni 14 giorni si prendono 15mila campioni dalle buste delle donazioni di sangue. Nel secondo si prendono campioni da almeno duemila cittadini che risiedono in quattro zone colpite della Germania.
E nel terzo, che partirà a maggio, si farà uno screening ampio su 15mila soggetti da 150 regioni in tutto il Paese. Servirà a comprendere meglio il comportamento del virus e identificare le migliori misure da adottare per rallentare i contagi. Oltre a dare una sistemata alle statistiche ufficiali.
Insomma, non serve essere tedeschi – lo fanno anche negli Stati Uniti, visto che il Center for Disease Control raccoglie campioni di sangue di persone cui non è stato diagnosticato il virus, studia il comportamento della malattia negli operatori sanitari e porta avanti ricerche a livello nazionale da diverse parti del Paese. Basta molto di meno: un piano. Se possibile, efficace.